Uno studio dell’Università e dell’AOUP, pubblicato sulla rivista “Diabetologia”, apre le porte a trattamenti innovativi della forma di gran lunga più diffusa di diabete
Arriva dall’Università e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Pisa una nuova speranza per la cura del diabete di tipo 2, quello più diffuso, che colpisce il 90% dei circa tre milioni e mezzo di individui in Italia e dei quattrocento milioni nel mondo che soffrono di questa malattia. Uno studio condotto dai ricercatori pisani – che sarà pubblicato a febbraio sulla prestigiosa rivista internazionale “Diabetologia”, che lo ha anche selezionato tra quelli di maggior rilievo del numero – dimostra infatti che la ridotta quantità di insulina nel diabete di tipo 2 sembra essere dovuta non solo alla morte delle cellule beta, come generalmente ritenuto, ma soprattutto al fatto che molte di tali cellule, pur vive, non riescono a produrre l’insulina, con conseguente aumento delle concentrazioni di glucosio nel sangue e sviluppo del diabete.
“Questa ricerca – sintetizza il professor Piero Marchetti, che ha coordinato il gruppo di lavoro composto da numerosi ricercatori e clinici – può modificare il nostro modo di pensare alle cause del diabete di tipo 2, aprendo le porte a nuove possibilità di prevenzione e cura della malattia. Finora le ricerche hanno generalmente osservato che, in questa forma di diabete, molte cellule beta del pancreas (quelle che producono insulina) appaiono non più presenti, e si è sempre ritenuto che così fosse in quanto tali cellule erano morte. Nei nostri laboratori, applicando tecniche più approfondite, quali la microscopia elettronica e la valutazione diretta della secrezione di insulina, abbiamo evidenziato che molte delle cellule beta che sembravano morte – e quindi perse per sempre – sono in realtà vive, anche se incapaci di funzionare normalmente”.
La scoperta appare di particolare interesse perché al momento, pur essendo molti i farmaci a disposizione per la cura del diabete, i risultati della terapia sono ancora parziali. “Alla luce dello studio – conclude il professor Marchetti – potremo riuscire a capire quali sono i meccanismi molecolari che causano il cattivo funzionamento delle cellule beta e, dunque, ottimizzare le terapie, in modo da ripristinare la normale produzione di insulina, e così prevenire, curare e forse guarire il diabete di tipo 2”.