Cari lettori,
per il quarto appuntamento con InQuadriamo il diritto voglio prendere spunto dalle giuste osservazioni che un attento lettore di paginaQ ha sollevato in relazione all’ultimo articolo pubblicato, la settimana scorsa, su questa rubrica.
Come veniva segnalato in quel commento, a volte le solenni proclamazioni di diritti contenute nella Costituzione, nelle Convenzioni internazionali, nelle Carte sovrannazionali, nei codici e nelle leggi nazionali fanno riferimento a diritti che poi, allo stato pratico, risultano di difficile se non addirittura di impossibile attuazione. In questi casi – ossia nei casi in cui un diritto esiste solo “sulla carta“, perché poi non lo si può applicare o tutelare sul piano concreto – si può sicuramente parlare di mancanza di effettività del diritto.
Negli ultimi anni, uno dei diritti che, forse più di altri, ha visto accrescere questa discrepanza tra “diritto riconosciuto in astratto” e “diritto tutelato in concreto” è il diritto «ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti»: si tratta di un diritto che, pur essendo riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione italiana, è andato nel tempo perdendo buona parte del suo carattere di effettività, soprattutto a causa dello spaventoso aumento dei costi della giustizia.
Un esempio basterà sicuramente per chiarire a che cosa si fa riferimento.
Supponiamo che Tizio abbia arrecato a Caio un danno da 200 euro. Caio ha diritto di agire in giudizio contro Tizio (è l’art. 24 della Costituzione che gli riconosce questo diritto), ed ha pure in mano tutte le “carte” (prove documentali, testimonianze ecc.) per vincere. A questo punto, Caio si reca dal suo avvocato di fiducia, il quale gli spiega che, solo per iniziare il giudizio, bisogna pagare allo Stato 37 euro a titolo di contributo unificato ed altri 27 euro a titolo di marca da bollo. Inoltre, l’avvocato spiega a Caio che nel corso del giudizio bisognerà pagare le spese per notificare a Tizio l’atto di citazione e le marche da bollo per chiedere le copie dei documenti prodotti in giudizio da Tizio (per un totale, nella migliore delle ipotesi, di circa 100 euro), e che, alla fine del giudizio, quando verrà emanata la sentenza, bisognerà pagare un’apposita imposta di registro pure su quella. Infine, l’avvocato ricorda che anche lui dovrà essere retribuito per il lavoro che andrà a svolgere, e presenta a Caio un preventivo di quelli che saranno i suoi compensi, qualora Caio intenda conferirgli il mandato di agire in giudizio. L’avvocato spiega anche che, se Caio riesce a dimostrare la fondatezza della sua richiesta ed ottiene, quindi, una sentenza che accoglie in tutto e per tutto la sua domanda, di regola le spese legali fino a quel momento sostenute dovrebbero essere tutte (nessuna esclusa) poste a carico di Tizio. Ma, soggiunge l’avvocato scrupoloso, non è detto che sia così: il Giudice potrebbe, infatti, decidere, per i più svariati motivi, di compensare integralmente le spese legali tra le parti, il che significa che ognuno si paga il proprio avvocato e le spese che ha sostenuto fino a quel momento.
A questo punto Caio fa due conti: il danno che ho subito è di 200 euro, solo per iniziare la causa devo pagare un totale di 64 euro allo Stato, e dovrò pagare altri 100 euro circa (se va bene) per notifiche e marche da bollo durante tutto il corso del giudizio. Siamo già a circa 164 euro, e non ho ancora considerato i compensi del mio avvocato, né le spese di registrazione della sentenza. Per ottenere il risarcimento del danno da parte di Tizio passano (se tutto va bene) almeno due anni. Vale la pena agire contro Tizio? Vale la pena farsi venire l’agitazione al solo pensiero di “andare in tribunale”? Vale la pena spendere tutti questi soldi, perdere tutto questo tempo, aumentare i livelli di stress corporeo per 200 euro, se nel frattempo devo sostenere tutte queste spese e se, in prospettiva, non ho neppure la certezza che mi vengano rimborsate all’esito del giudizio?
Molto probabilmente Caio, se non è milionario e se ha anche altro da fare nella vita, risponderà che no, non ne vale la pena. Meglio lasciar perdere le questioni di principio, meglio far “sbollire” la rabbia accumulata nei confronti di Tizio e tenersi il danno, perché per 200 euro non vale la pena azionare la “macchina della giustizia”. Ma questa sconfitta di Caio è, prima di tutto, una sconfitta dello Stato e del sistema giustizia.
Torniamo allora seri – anche perché su questo argomento c’è davvero poco da ridere, purtroppo – e vediamo come, quando e perché i costi della giustizia hanno raggiunto i livelli attuali.
Per quanto riguarda la famosa marca da bollo che si deve pagare all’atto dell’instaurazione del giudizio, considerate che questa è aumentata, dal 31 dicembre 2013 al 1° gennaio 2014, da 8 euro a 27 euro: un aumento di oltre il 330% nell’arco di ventiquattro ore appena … sfido qualsiasi commerciante a fare la stessa cosa, da un giorno all’altro, con i prezzi esposti in vetrina!
Per quanto riguarda, invece, il contributo unificato, considerate che, solo negli ultimi quattro anni, questa sorta di imposta (ma il termine “imposta” è usato qui in senso improprio) è stata introdotta per i ricorsi contro le sanzioni amministrative per violazione del codice della strada (ossia le multe stradali, per le quali prima non era prevista) e per alcuni giudizi che, per la loro particolare delicatezza, erano sempre andati esenti dal pagamento del contributo unificato (ad esempio i giudizi in materia di lavoro ed i procedimenti per la separazione personale dei coniugi), e pochi mesi fa una nuova riforma legislativa ha previsto che per proporre appello contro una sentenza, il valore del contributo unificato debba essere aumentato del 50%, e che debba essere addirittura raddoppiato per proporre ricorso in Cassazione. E tralascio ogni considerazione sui contributi unificati previsti per il processo amministrativo perché lì sì che i valori fanno veramente rabbrividire.
Si ritiene che il vertiginoso aumento dei costi della giustizia possa servire, oltre che per aumentare le entrate dello Stato, anche per “deflazionare il contenzioso”, ossia per cercare di disincentivare il ricorso alla tutela giudiziale in favore di altre soluzioni “stragiudiziali” di risoluzione delle controversie (transazioni, mediazioni, arbitrati ecc.). Il problema è che in questo modo non si elimina affatto la “domanda di giustizia”, ma si va solo ad intaccare ulteriormente l’effettività del diritto di agire in giudizio, e ad alimentare il senso di insoddisfazione dei cittadini.
Vi aspetto alla prossima,
Francesca Bonaccorsi
Articolo dettagliato. Questa si chiama informazione. Probabilmente ci ha già pensato, propongo all’avvocatessa un articolo sul patrocinio gratuito, così potrebbe anche rispondere alla seguente domanda: le spese di accesso alla giustizia (imposta di bollo, contributi unificati, ecc.), valgono anche in caso di patrocinio gratuito?
Il suggerimento è ottimo, in effetti il prossimo articolo pensavo proprio di farlo su questo argomento!
Una piccola anticipazione, per rispondere alla Sua domanda: qualora la parte sia ammessa al “gratuito patrocinio”, le somme da Lei richiamate (marche da bollo, contributi unificato ecc.) non sono dovute, il procedimento è, sotto questo profilo, esente da ogni spesa.