Usciti dalla sala, il film ha vinto su di noi, ha scardinato una reazione. Che sia cinica, dissacrante, curiosa o semplicemente spaesata ha davvero poca importanza. La recensione di Yuri Leoncini
Sono circa 40 gli episodi (se così si possono chiamare) del film di Roy Andersson Leone d’oro a Venezia 2014. La macchina da presa, issata su un cavalletto – ce la immaginiamo – là rimane, silenziosissima nell’immobilità del piano sequenza. Circa 40 stacchi di montaggio tra un piano e l’altro. Andersson costruisce tableux viventi (si fa per dire) di personaggi strani e stranamente agghindati, le facce bianche da cerone teatrale, i lineamenti tirati come in un mimo senza voce – e senza voce lo sembra davvero, il film, anche la musica si fa sentire poco se non per il leitmotiv con variazioni su “John Brown’s Body”.
Sin da subito, con la micro trilogia sulla morte, ci proiettiamo in interni neutrali, dove tutto ha un unico colore verdastro e marroncino, il colore del non colore, della malinconia, della solitudine. E via via i vari personaggi grotteschi, irriverenti, irreali e caricaturali si susseguono in brevissimi sketch di nonsense, dove la ricerca del significato si perde nella sensazione disarmante del fallimento.
Il film, piano piano, ci induce un senso di disagio, il bisogno frustrato di avvicinarsi ai personaggi, mostrati sempre e solo in campi medi o lunghi, senza mai sfiorarli, lasciandoceli sempre un po’ troppo distanti per permettere un’identificazione spettatoriale. Una coppia, due amici stretti in una relazione di dipendenza, cercano per tutto il film, attraversando trasversalmente i vari episodi, di vendere tre oggetti che dovrebbero divertire – denti da vampiro con canini molto lunghi, sacchetto delle risate e maschera da “Zio dentone” – ma che sortiscono un opposto senso di soffocante e depressiva sensazione di vuoto.
È l’essenza delle cose che ci scuote nell’immagine, è la sottrazione del senso che ci spinge alla ricerca di una verità che forse non verrà mai fuori. Cosa vuole dirci in tutto quel silenzio, in tutta l’ironica sequenzialità di individui inetti e demoralizzati, come già morti in vita, in tutta quell’accostare cose che non hanno una continuità spazio-temporale? Un esercito a cavallo – Carlo XII in guerra contro i Russi – che passa da un bar per cacciare le donne dal locale e per far dissetare il proprio re, figura ambigua che sottintende una omosessualità ostentata ma opaca. Un battaglia che sarà persa, dalle stracciate divise e dallo sconforto dei soldati di ritorno.
Ogni tanto si ascolta una frase ricorrente – come i due venditori che niente vendono – a ricordarci che bisogna essere felici, divertirsi e stare bene – sono felice di sapere che state bene – una frase che si svuota del significato, stridendo con la sostanza, che diventa nenia inespressiva, simbolo dell’incomunicabilità che il film racconta, un filo rosso che dal primo porta all’ultimo episodio.
La violenza, sotto forma di machismo dei soldati, di morte violenta, di sevizie su schiavi neri che vengono sacrificati all’interno di una strano strumento della morte; è la violenza che esplode silenziosamente dal film, la violenza sulla povera scimmia immolata in uno strano laboratorio di ricerca che urla pietà (unica voce); o più semplicemente la violenza della privazione e dell’immobilità del destino individuale. Una coppietta (quella della locandina) che si scambia effusioni su una spiaggia, rimane l’unica scena che si riappropria dei colori, della luce, di un senso di carica positiva.
Non si rimane indifferenti, lo stillicidio del dipanare incerto della narrazione, dove gli elementi si sottraggono incomprensibilmente, ci impone di riflettere, di chiedersi un perché, di cercare aria. Il film ha vinto su di noi, ha scardinato una reazione. Che sia cinica, dissacrante, curiosa o semplicemente spaesata ha davvero poca importanza.