Sorrentino tenta un continuum da La grande bellezza, dilatando la sua cifra stilistica oltremodo. E cede alla tentazione auto-citazionista, risultando al contempo ridondante e grottesco
Youth ha un titolo ossimorico rispetto alla storia: una storia di vecchi e di vecchiaia. Fred e Mick sono due amici storici, hanno ormai 80 anni e sono in vacanza sulle Alpi. Uno è un famoso compositore ormai in pensione e l’altro un regista che sta lavorando al suo ultimo film. Sorrentino tenta un continuum da La grande bellezza, dilatando la sua cifra stilistica oltremodo. Sorrentino ci regala, anche qui, campi lunghissimi in cui la fotografia si fa protagonista, visuali d’insieme perfette nel loro equilibrio - Fred si diverte a dirigere le vacche al pascolo - anche qui va a cercare, nei dettagli, la vistosità del corpo, dei corpi, nel loro vissuto di carne, nella loro plasticità o bruttezza; Sorrentino cede alla tentazione auto-citazionista, risultando al contempo ridondante e grottesco.
Alcune immagini, dai tralicci dell’elettricità, su cui Mick e il suo team si arrampicano mentre pensano ad un finale del film – nel film – richiamano, infatti, le belle inquadrature de Le conseguenze dell’amore, in cui l’amico elettricista sta arrampicato in alto, e sospeso nello spazio onirico dell’interiorità dell’altro. Youth, cerca di indagare quale misterioso legame ci sia tra la gioventù e ciò che ne resta ad un certo punto della vita e la risposta, forse, è per ognuno diversa.
La giovinezza c’è: quella della massaggiatrice, quella di Miss Mondo, quella della baby-prostituta. Una giovinezza “di altri” che si osserva, con desiderio, imbarazzo, invidia. La figlia di Fred, lasciata dal marito per un’altra donna, fa visita al padre. Sarà l’occasione per indagare nella relazione padre-figlia, per dirsi ciò che non è mai stato detto, ma anche questa relazione rimane, appena accennata, sbiadita e persa nella storia. Sorrentino sembra troppo impegnato a rendere “bello” il film, a farsi riconoscere – non ce n’era bisogno perché era fin troppo facile – più che a gestire i fili narrativi delle storie e ad approfondirli come meriterebbero.
Michael Caine, adatto nella parte del vecchio più di quanto lo sia Harvey Keitel – un vecchio troppo giovane – rimane un po’ troppo impassibile nella sua parte, poco emotivo, un po’ sfocato. Cosa resta alla fine, quando tutta la giovane esuberanza, l’egocentrismo narcisistico a cui tutti gli amori sono stati sacrificati, è svanito nella vecchiaia? Forse delusione, forse fallimento, forse pentimento? Non ci è dato modo di scoprirlo davvero, Sorrentino lascia sospese questi interrogativi – forse volutamente? – complice anche la sceneggiatura ingombrante, che si sciupa cercando di farsi visionaria e un tantino troppo filosofeggiante. L’apparizione di Jane Fonda risulta fuori luogo e forse anche un po’ grottesca – ci ricordiamo della Fonda giovane e bella e qui ne individuiamo una caricatura, quando la donna vecchia finge di essere giovane l’unico che calza a pennello la parte è Paul Dano, che qui serve a palleggiare le riflessioni filosofiche sulla vita e la morte assumendosi il ruolo di spettatore interno. Vale la pena sottolineare che i momenti più intensi del film sono quelli in cui la coralità dei corpi nudi o seminudi disegnano acrobazie visive con il loro disporsi in file perfette, in semicerchi, con il loro rendersi figurine di uno spazio di umanità. Stonano invece le visionarietà troppo ammiccanti, come le donne-ruolo del sogno ad occhi aperti, l’indiano che alla fine lievita davvero o un Maradona patetico: come dice Fofi “le fellinate pesano come macigni”.