Ho visto “Philomena”, l’ultimo film di Stephen Frears, dove spicca l’eccezionale Judi Dench, che da sola reggerebbe tutto il film – e non a caso si è formata in teatro.
Nell’Irlanda super cattolica e bigotta degli anni ’50, una ragazza, Philomena Lee, viene iniziata al sesso durante una fiera di paese – se Dio vuole, ci viene da dire – da un bell’irlandese. Rimane incinta e il padre, per sfuggire all’onta, la fa rinchiudere in un convento di suore maddalene.
Qui, la parte dolente del film. Le giovani donne rinchiuse in questi conventi, non solo diventano schiave, lavorando miseramente per tutte le ore del giorno per ripagarsi un piatto di minestra, ma vengono anche umiliate e disprezzate e non si finisce mai di gettare loro in faccia che si sono macchiate di un peccato infamante. Le povere peccatrici sono costrette all’allontanamento forzato dai propri figli, partoriti lì senza nessun aiuto – quando non si è fortunate, le suore scavavano tombe dietro il convento, per madri e figli – e allevati in stanze a parte a cui è precluso l’ingresso se non per un’ora al giorno. La scena delle mamme stanche che si allietano emozionate nel vedere i loro figli, è una delle più belle dell’intero film. Difficile non rimanerne commossi, chiunque può immedesimarsi – e le inquadrature aiutano molto in questo gioco di identificazione – nella gioia centellinata di una mamma che gioca con la sua creatura. Bellissima la sceneggiatura, con giochi linguistici talvolta ben ricercati – peccato non vederlo in lingua originale – con momenti di inapparente significato narrativo, in cui si discute in dettaglio sulle letture rosa dell’anziana signora, che a me ha richiamato qualche belle sequenza di Tarantiniana memoria. Il film si basa su una storia vera, raccontata nel libro The Lost Child of Philomena Lee, forse è questo che ne rende alcune parti simili a momenti di soap.
Il film orchestra bene i tempi narrativi, con un’altalena di flash-back dalla giovinezza di Philomena alla protagonista indiscussa del presente narrativo: la Philomena anziana, che non ha molto a che spartire con la ragazza del convento, forse perché in quel convento ha lasciato un pezzo di sé, della sua vita. Il bel figlio le viene portato via – le sorelle misericordiose sapevano svolgere bene i loro affari e furono 4000 i bambini irlandesi venduti a ricche coppie di americani sterili.
Philomena Lee, il giorno in cui il figlio mai cresciuto compie cinquanta anni, piange, cullando una piccola foto, e queste lacrime, con dignitosa riservatezza, bagnano le rughe di questa donna addolorata che, per tutta la sua vita, ha sofferto per questo figlio rapito e mandato chissà dove. Un salto indietro, sulla scena più straziante del film che viene a rattristare la sala: Philomena capisce, in un giorno di ordinario lavoro, che il bimbo sta per esserle rapito e corre come una pazza mentre la macchina da presa, in un turbinio vertiginoso, la rincorre tra scale e corridoi finché si ferma davanti alla grata sigillata del convento – il cui grande cancello esterno richiama, nello stile, l’ingresso di Auschwitz – e mentre urla tutta la sua disperazione, l’inquadratura va ad avvicinarsi – oltrepassando l’ostacolo frapposto – al vetro della macchina da cui si intravede lo sguardo del bimbo, tra l’incredulo e lo sgomento.
Sarà però un giornalista – interpretato da un fenomenale Steve Coogan – un duetto d’eccezionale forza quello tra i due attori – ad aiutarla nella ricerca del figlio perduto. Martin Sixsmith nella realtà, un tempo responsabile della comunicazione del governo Blair.
Da qui il film varia e, negli Stati Uniti, le avventure di Philomena e Martin si riscaldano di un non so che di comico, talvolta, e così ti ritrovi a ridere in un film che poco prima ti aveva fatto piangere. In questo ci si scosta dal precedente “Magdalene” (Peter Mullan, 2002) in cui rimane solo l’atrocità senza risata.
Ci saranno molti ostacoli nella ricerca della verità – che ovviamente non vi svelerò – tanti di questi magnificamente orchestrati proprio dalle Istituzioni religiose che devono difendere il loro passato peccaminoso di vergogna.
I due protagonisti saranno l’esemplificazione di due pensieri contrapposti: la fede indissolubile di Philomena, che mai e poi mai cadrebbe nell’odio, e lo scetticismo di Martin, razionale e ateo, che prova rabbia e sete di vendetta e che non si rassegna alla pacata desistenza di Philomena.
La rabbia di Martin è stata anche la mia: come si fa a perdonare in nome della fede chi ha saputo, per tutta la vita farti cosi male sfruttando il potere smisurato dell’Istituzione ecclesiastica?
Per Philomena conta solo Dio. Il film tenta di indicare una via di uscita tra le prospettive di lotta tra i due pensieri: forse andare oltre i pregiudizi? Forse perdonare? Philomena farà pubblicare la sua storia, dall’inizio alla fine, nei suoi dettagli terrificanti, forse sta in questo il suo piccolo momento di vendetta? O è solo l’amore a vincere?
A Philomena si può perdonare una visione ingenua sull’omosessualità basata su banali cliché, su cui tra l’altro si strappano risate in sala?
Rimane, a mio avviso, un’ombra troppo spessa dal sapore di perdono cristiano che (a me) non piace.
P.S. Comunque sia, a me è rimasta un po’ di voglia di schiaffeggiare la madre superiora…