Finalmente! Un film italiano che lascia appagati come non mai. Bel film davvero, lo dovete andare a vedere, non perdetelo visto che, ahimè, son pochi i film italiani che meritano. Se non altro per un cast di variegati attori nostrali che, davvero, hanno interpretato in modo esemplare i loro personaggi da farli risultare veri.
Non vi aspettate un “Ovosodo”, non c’è traccia di quel Virzì che rubava risate e caricava sull’accento labronico buona parte dell’effetto-film. No, qui c’è un regista strutturato, maturo, che sa gestire il racconto, che lo sa presentare, che sa svolgere, con geniale risultato, una trasposizione complessa – dal romanzo americano di Stephen Amidon – che comunque riesce alla perfezione, grazie anche al talento di Francesco Piccolo e Francesco Bruni – tanto da immaginare un romanzo ambientato nel nord Italia alla base del film. Non fidatevi di quelle recensioni politicizzate di Belpietro che si scaglia con aggressività fascistoide – e demagogica come sostiene lo stesso Virzì – contro gli intellettuali ruba-finanziamenti statali che insultano chi lavora.
Grazie Virzì, invece, per averli fatti apparire, questi super manager-padroni dei buffoni vuoti e morti. Grazie Virzì, invece, di averci presentato un personaggio dalla cravatta verde ramarro che vomita un sacco di coglionate – frutto di ignoranza becera. Grazie Virzì, invece, di averci fatto sentire la verità dietro ad alcuni personaggi bellissimi, fragili e meravigliosi. I “perdenti” sono i migliori nel film, veri, reali, sfigati ma vivi! Grazie Virzì, di averci fatto sentire una piccola commozione nel percepire come anche l’inquadratura va a sottolineare la tua scelta – e il tuo giudizio, alla faccia di Belpietro – inquadrature bellissime, come l’elegante panoramica iniziale che, dall’alto, accarezza i resti della festa e poi si abbassa a mostrarci il vero protagonista del film – quel capitale umano da 218.976 Euro – il cameriere stanco, che ha la faccia di chi lavora – chi suda nel lavoro vero – che usa la bicicletta per andare a lavorare all’alba e rincasa a tarda notte, mentre le strade diventano pericolose, e in queste strade ci sono anche coloro che le notti le trascorrono in altro modo, e non lavorando, le consumano consumandosi nella noia-alcool-vizio-pochezza-ostentazione-soldi-di-papà.
Il capitale umano è un super film che fa crescere la rabbia in corpo, che fa sentire tutto il senso di ingiustizia e di vuoto che ci portiamo addosso nell’essere italiani – e che Italiani – e nell’aver tollerato fin troppo. Il teatrino di Bernaschi e Ossola, famiglie a confronto, simulacri di una vera Italia? Cosa conta poi, davvero, se non l’eccesso, l’abuso, l’approfittarsi, il fregare chi si può e salvarsi la pelle comunque perché si compra tutto?
Quali sono, allora, i valori veri in cui credere, per cui vivere? Eppure qualcuno ci ricorda che si lavora anche “per il pubblico”, per aiutare i ragazzi in crisi – bellissima la Golino nella parte della psicologa che stona con lo sfondo, col marito ruffiano che simboleggia la piccola e volgare borghesia che vive di emulazione della forma. Quali sono i valori per cui finire in prigione anche senza colpe per il ragazzo schizzato – bravissimo Giovanni Anzaldo nella parte – che, con la sua genuinità, freschezza e verità, vince il confronto con il figlio di papà alcolista? Quanto conta l’amore che la vita misera riserva a qualcuno, per karmico ciclo o per ingiustizia sociale? Conta assai, sembrerebbe: come dimenticarsi dell’ultimo bellissimo sorriso d’amore che i due giovani personaggi “vincenti” si scambiano in carcere?
L’esordiente Matilde Gioli spicca nei panni di Serena, una delle poche che non si fa comprare, che agisce una scelta consapevole. Bentivoglio invece, nei panni del padre, con un ostentato accento brianzolo, rappresenta quella categoria sociale, detestabile, che calpesterebbe qualunque sentimento e valore per un’ascesa facile, soprattutto dell’ego.
Grazie Virzì, perché hai fatto un film che hai diviso in capitoli – Dino/Carla/Serena – attraverso una focalizzazione ristretta sui vari personaggi, dove le tessere del puzzle, un po’ alla volta, si ricompongono attraverso il gioco della narrazione che singhiozza da un punto di vista all’altro. E indizio, dopo indizio, la scena si ricostruisce nella sua interezza di senso.
Grazie Virzì, per quel lungo flash-back incatenato che spiega il tutto e il niente, che, nell’ultimo capitolo, va a pareggiare i conti con l’incipit, fine che è inizio, però. Grazie, infine, di averci stordito con musiche di tuo fratello Carlo, originali, mescolate anche a un Vivaldi – e come ci sta bene! – insomma, grazie di averci regalato queste due ore in un cinema italiano, di fronte a un film italiano, di un regista italiano.
Sono contenta di averlo visto – gli altri, quelli della polemica, lo hanno visto? – son contenta di sentirmi dalla parte di coloro che si sentono fragili, poveri, veri e vivi.
Yuri, vado.
Concordo, film bellissimo e di grande importanza. Ho sempre detestato i film di Virzì pur riconoscendone il talento. Questa è la prima volta che non lo spreca inseguendo paraculissime veltroniane pacificazioni di cui è stato per troppo tempo alfiere (es: il protagonista di Ovosodo felice e contento di essere sfruttato nella fabbrica del padre del suo “migliore amico” che lo ha sempre fottuto per una pura e semplice questione di censo).
Stavolta va dritto fino in fondo, senza sconti per nessuno e l’happy end ha finalmente il sapore amaro della migliore commedia italiana. Inoltre c’è finalmente una riflessione sulla trasformazione antropologica subita dall’uomo ormai disarmato davanti a questo capitalismo crepuscolare.
Detto questo, complimenti e auguri per questa nuova avventura. Non se ne può più del mainstream.
di questa recensione mi convince non solo la valutazione degli aspetti formali, ma soprattutto il peso che viene dato a come il film ci riporta uno spaccato della nostra società attualmente alla deriva, e per come si schiera apertamente dalla parte delle persone che ancora coltivano qualche valore e vogliono andare ben oltre le apparenze, senza prospettarci registicamente un facile quanto improbabile “gli ultimi saranno i primi”. non si tratta di un’ “epopea” come “la ricerca della felicità” di Muccino, dove il protagonista (tra l’altro vero) visse poi ricco e contento, bensì della storia di persone che, seppur sbagliando (l’investitore commette comunque un’imperdonabile leggerezza, che però dimostra di sentire totalmente su di se) riescono a mantenere una loro integrità, e di altre che invece vivono consapevolmente sulle macerie degli altri, senza alcun rimorso.