Alla presa di posizione di Confcommercio Pisa che chiede al Comune di intervenire per arginare l’apertura di punti ristoro a base di kebab, in modo da salvaguardare “l’identità e la tradizione del centro storico di Pisa”, risponde la lista civica Una città in comune.
E lo fa con toni tutt’altro che morbidi, accusando l’associazione di categoria di “posizione xenofoba”.
“Sono davvero i kebab il problema del commercio a Pisa? – si chiede Sergio Bontempelli di Una città in comune – Questo lascia intendere il comunicato di Federica Grassini, presidente della Confcommercio. La crisi economica, la crescente difficoltà delle famiglie e il conseguente crollo dei consumi, le politiche di austerità che mettono in ginocchio la domanda interna (la gente non ha più soldi e non spende più…), il diffondersi della grande distribuzione, il declino delle aree urbane e degli spazi pubblici: tutto questo non sembra un problema, per l’associazione dei commercianti. Il nodo vero sarebbe, stando a quanto dice Grassini, il ‘decadimento dell’identità del centro storico. Dovuto, si badi bene, non ai processi di riorganizzazione del commercio al dettaglio, ma ai negozi gestiti da immigrati. Roba da non credere”.
A non convincere è anche l’idea di dover salvaguardare il centro da attività estranee alla nostra tradizione. “È uno strano concetto di ‘tradizione’ – prosegue Una città in comune – quello che ha in mente Confcommercio. Una tradizione che verrebbe compromessa non dalle grandi catene in franchising, non dai McDonald’s a due passi da Piazza del Duomo o alla Stazione (l’hamburger o il Big Mac sono “tradizionali”?), e nemmeno dall’Ikea o dai grandi supermercati che hanno invaso le periferie. No, il problema sono i piccoli esercizi gestiti dai migranti. Un capolavoro di mistificazione e di discriminazione a sfondo xenofobo”.
“Quando scrive che i minimarket dei cittadini stranieri ‘spuntano come funghi, non si capisce attraverso quali finanziamenti’, Confcommercio dovrebbe documentarsi meglio. I meccanismi che guidano la nascita e lo sviluppo di queste attività – un fenomeno diffuso in tutta Italia – sono infatti ben noti. La crisi colpisce duramente anche i migranti: spesso, questi si trovano disoccupati e hanno difficoltà a rinnovare i loro documenti di soggiorno (le sciagurate normative in materia di immigrazione legano a doppio filo il permesso al contratto di lavoro). Così, chi dispone di qualche risparmio decide di investirlo aprendo un’attività commerciale. Si tratta generalmente di piccoli esercizi che “tirano avanti” in mezzo a mille difficoltà, e che cercano di tenersi in piedi puntando sulla riduzione dei prezzi e sull’estensione degli orari di apertura. Il che significa, per molti esercenti, fare turni di lavoro massacranti e ottenerne guadagni irrisori, spesso al limite della sopravvivenza. E infatti, se è vero che molti negozi aprono, è anche vero il fenomeno inverso: non sono pochi i kebab e i minimarket che chiudono i battenti pochi mesi dopo l’inaugurazione. Esattamente come accade a tanti locali aperti da cittadini ‘autoctoni'”.
Il commercio in città è in crisi, riconosce la lista civica, ma quello che non deve accedere è “un’ennesima guerra tra poveri”, a colpi di accuse del genere “i minimarket non rispettano le regole” o “i kebab sono carenti sotto il profilo del rispetto delle normative igienico-sanitarie”.
“Se vi sono singoli esercizi che non rispettano le regole – sottolineano – dovranno evidentemente essere perseguiti a termini di legge. Ma criminalizzare un’intera categoria è oltraggioso e discriminatorio (e Confcommercio dovrebbe saperlo bene: quante volte i piccoli esercenti sono stati trattati da evasori tout court, senza distinzioni?)”.
“Se vogliamo mettere le mani seriamente sulla questione del commercio – concludono – dobbiamo ripartire dai nodi di fondo: dalla crisi economica e dal crollo della domanda, che ha messo in ginocchio tanto le famiglie quanto le imprese e le attività commerciali”.
Spesso neanche i pubblici esercizi gestiti da italiani rispettano le regole. Non mi direte mica che non vi è mai capitato di vedervi arrivare il conto della pizza scritto su un foglietto invece che sullo scontrino fiscale?
Capita eccome! A volte fanno lo scontrino da un “registratore di cassa”, ma non si tratta di uno scontrino fiscale.