Giulia Garofalo Geymonat ha scritto un libro, Vendere e comprare sesso (Ed. Il Mulino, 2014). Ricercatrice in Scienze sociali, lavora al Centro di Gender Studies dell’Università di Lund in Svezia. Dopo molti anni passati a parlare di un tema, quello della prostituzione, nelle università e con le organizzazioni contro la tratta, oggi ne parla in un libro scritto per tutti e per tutte. Un libro che oggi presenta a Pisa, al Distretto 42 (ore 18) e domani alla SMSBiblio (alle ore 17).
PaginaQ ha parlato di Vendere e comprare sesso con l’autrice.
Quali sono i pregiudizi più diffusi sulla prostituzione, e quanto l’idea “comune” che si ha del fenomeno non corrisponde alla realtà?
Si pensa spesso che la prostituzione sia qualcosa di omogeneo, quando ne esistono, anche nella stessa città, decine di forme diverse. Si pensa che coloro che vendono sesso siano vittime, o viceversa astute manipolatrici, quando invece sono per lo più persone che si trovano a vendere sesso perché è una delle opzioni migliori che hanno, magari anche per solo qualche mese, o part-time. Si pensa infine che i clienti siano uomini all’antica, che nessuno vuole, oppure uomini violenti che hanno bisogno di affermare il loro potere sulle donne. Ma i clienti sono di tutte le età e classi sociali, la maggior parte hanno amanti, fidanzate, mogli, e per lo più cercano un momento di piacere e sicurezza nell’incontro a pagamento – anche se questo non significa che si comportino sempre bene, visto il numero di clienti che cercando di avere rapporti non protetti. Però chi aggredisce, e anche uccide, le prostitute non sono i loro clienti, ma piuttosto uomini violenti che cinicamente sanno che è probabile che non verranno puniti, e perciò si fingono clienti per poter colpire facilmente.
È opinione diffusa che dietro la prostituzione ci sia sempre e comunque lo sfruttamento e la messa in schiavitù di una donna o di chiunque altro si prostituisca. È cosi?
I modi di vendere e comprare sesso sono moltissimi. Esistono forme di grave sfruttamento, e addirittura di tratta – ovvero una situazione in cui non si può dire no. Esistono anche situazioni di benessere e indipendenza. La maggior parte delle situazioni sono intermedie. In ogni caso, lo sfruttamento, il ricatto, e la prevaricazione sono facilitati dal fatto che il settore sia semi-illegale, con molte lavoratrici e lavoratori migranti senza diritti di cittadinanza, e in una società in cui dire che si vende (e che si compra) sesso è ancora molto difficile. Detto questo, anche se le condizioni sono spesso difficili, la prostituzione resta per molte donne e persone trans l’opzione migliore, rispetto alle alternative, per realizzare i loro progetti, mantenere la famiglia, o reagire in una situazione di improvviso bisogno.
Quali sono i numeri in Italia del fenomeno?
La questione dei numeri è sempre molto delicata per un settore che è semi-illegale, e comunque molto stigmatizzato (chi vorrebbe dire che vende o compra sesso, e a chi?). Com’è ovvio, si sa di più sulla prostituzione di strada. Comunque, le stime più diffuse ci dicono che in Italia gli uomini adulti che comprano o hanno comprato sesso si aggirano fra i 2.5 e i 9 milioni (dunque fra il 10% e il 30% degli uomini italiani). Le donne clienti sono pochissime, e di loro non si sa quasi niente – mentre si sa che, come le altre occidentali, anche alcune donne italiane, accettano di pagare i cosiddetti beach boys o altri uomini in luoghi di vacanza esotici. I numeri per le persone che vendono in Italia sono invece fra i 50.000 e i 100.000 – di cui circa 25.000 lavorano in strada. In strada le persone italiane non lavorano quasi più, mentre indoor, cioè in appartamenti, club, o su appuntamento, più della metà sarebbero italiane. Tra chi vende in strada, l’80% sarebbero donne, il 15% persone trans, e il 5% uomini.
Ci sono forme di legislazione “buone” che tutelano la donna nell’ambito della prostituzione? Quale potrebbe essere una forma di legge che consenta allo stesso tempo di togliere la prostituzione sulla strada, così come la conosciamo e con i rischi che questa comporta, e che allo stesso tempo non crei dei ghetti?
Non esiste un modello perfetto. Esistono sicuramente leggi migliori e peggiori dal punto di vista dei diritti delle persone, donne e non solo, che vendono sesso. Dagli 80 in Europa, USA, e America Latina, e dagli anni 90 anche in Asia e in Africa, si sono diffusi molti gruppi che lottano per i diritti delle e dei sex workers (si veda la rete NSWP nel mondo e il Comitato per i diritti civili ). Chiedono tutti la stessa cosa: decriminalizzare l’industria, perché ogni forma di criminalizzazione peggiora le condizioni di chi vende sesso, esponendole a più abusi, isolamento, e sfruttamento, e diminuendo anche le possibilità di uscire dalla prostituzione. La decriminalizzazione completa è realizzata per esempio in Nuova Zelanda, e i risultati sembrano buoni.
In Italia, occorre agire su due fronti: aprire degli spazi di legittimità per forme di prostituzione praticate in buone condizioni – per esempio in piccoli gruppi autonomi in appartamento – e d’altra parte impegnarsi davvero nella lotta allo sfruttamento, che sia in strada o indoor.
Oggi si tende a usare più frquentemente il termine sex worker nel tentativo, ci pare, da un lato di restituire dignità a chi fa delle prestazioni sessuali un mestiere, e dall’altro di eliminare l’accezione negativa implicita di alcune parole. Lei che ne pensa di quest’uso?
Sex worker, che significa lavoratrice o lavoratore del sesso, è un termine introdotto negli anni 70 dall’attivista, prostituta, femminista Carol Leigh (aka Scarlot Harlot ), per dare visibilità al contenuto di lavoro di questa attività, che altrimenti tende a diventare invisibile, oscurato dall’informalità del settore, dalla semi-illegalità, dalla morale, dall’idea che non ci voglia infondo chissà che a vendere sesso, o viceversa che solo chi è forzata lo possa fare. Il termine è adottato oggi in moltissime lingue, in alternativa a prostituzione, ma anche per includere altri mestieri del sesso, come per esempio la telefonia erotica o la lap-dance. Trovo fondamentale parlare di lavoro perché per moltissime persone, soprattutto donne (ma non solo) spesso di classi popolari e migranti (ma non solo) si tratta di una forma fondamentale di accesso al reddito, e le loro richieste hanno a che fare proprio con la possibilità di avere migliori condizioni di lavoro – il che, sia detto per inciso, comprende anche la possibilità di cambiare lavoro, e non rimanere incastrate nella prostituzione.
Quando è nata l’idea di scrivere questo libro e a partire da quali ragioni?
Trovo che sia molto difficile farsi un’idea sulla prostituzione. È complicato non solo affrontare le domande di principio – è giusto che esista la prostituzione? È possibile sceglierla? perché esiste? – ma anche sapere che cosa succede nei mercati del sesso, cosa fanno gli stati, che cosa si può fare contro il traffico di esseri umani, o anche, banalmente, capire esattamente cosa è prostituzione, e cosa non lo è, e quali attività sono illegali e quali lecite nei diversi paesi. Dopo molti anni che comunico su questi temi nelle università, nelle assemblee, con le organizzazioni contro la tratta, e con le associazioni per i diritti delle e dei sex worker, ho sentito che era tempo di scrivere un libro per tutti e tutte, scritto in maniera semplice e scorrevole.