Cari lettori,
per questo nuovo appuntamento di InQuadriamo il diritto voglio affrontare un tema che, purtroppo, affligge ormai da moltissimi anni il nostro Paese: l’eccessiva durata dei processi.
Quante volte avete sentito parlare di giudizi iniziati vent’anni fa e ancora oggi lontani dal giungere ad una conclusione? E quante volte avete sentito parlare di udienze rinviate a due, tre o quattro anni di distanza senza che, nel frattempo, venga compiuta alcuna attività? Considerate che le rilevazioni statistiche ci dicono che per il processo civile ordinario (quello più comune) servivano, nel 2011, circa 1.127 giorni per arrivare alla conclusione del giudizio di primo grado, 1.602 giorni per il giudizio di appello e 1.105 giorni per il giudizio in Cassazione, per un totale di 3.834 giorni (quasi 11 anni!) necessari per giungere ad una sentenza definitiva (i dati sono tratti dal sito internet dell’Osservatorio Diritti Umani – associazione che si occupa di promuovere e tutelare i diritti umani in Italia – all’indirizzo www.osservatoriodirittiumani.it).
Consapevole dell’esistenza di un gravissimo problema di ritardo cronico della giustizia italiana, il nostro legislatore ha previsto un rimedio risarcitorio per tutti coloro che si trovano ad essere “vittima” di giudizi e processi di durata irragionevole (la normativa di riferimento è la legge 24 marzo 2001, n. 89, detta anche “legge Pinto”).
La domanda di risarcimento del danno deve essere necessariamente presentata, per il tramite di un avvocato, entro sei mesi dal momento in cui la sentenza o, comunque, il provvedimento che conclude il processo diventa definitivo (ossia, non è più soggetto ad impugnazioni), ed è soggetta a diversi limiti e a molteplici preclusioni.
Per poter chiedere il risarcimento occorre, innanzitutto, verificare se, nel caso concreto, il termine di durata ragionevole del processo sia stato o meno superato. La legge precisa, a questo proposito, che si considera rispettato il “termine ragionevole” se il processo non supera la durata di tre anni in primo grado, di due anni nell’eventuale giudizio di secondo grado e di un anno nell’eventuale giudizio davanti alla Corte di Cassazione. Inoltre, si considera in ogni caso rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile (ossia con sentenza non più suscettibile di impugnazione) in un tempo complessivamente non superiore a sei anni.
Nel valutare se la durata del giudizio è stata più o meno ragionevole, occorre, poi, tener conto anche di una serie di ulteriori circostanze quali, ad esempio, la complessità del caso trattato (se il caso affrontato è semplice, si presume che il giudizio possa concludersi in tempi molto rapidi; viceversa, se il caso affrontato è particolarmente complesso, è possibile che il giudizio abbia una durata più lunga), l’oggetto del procedimento (ci sono alcune materie molto delicate – come, ad esempio, quelle relative al diritto di famiglia o al diritto del lavoro – che imporrebbero una maggiore velocità nella definizione del giudizio), il comportamento delle parti, del giudice e di altri eventuali soggetti coinvolti nel giudizio (ad esempio, il convenuto non può dolersi di aver subito un processo troppo lungo se poi è stato lui il primo a chiedere, mediante il suo avvocato, reiterati ed inutili rinvii di udienza).
A titolo di riparazione del danno si può ottenere una somma che oscilla tra i 500 ed i 1.500 euro per ogni anno che eccede il termine di ragionevole durata del processo. Ciò significa che se, in astratto, un giudizio doveva durare tre anni e si è, invece, concluso dopo dieci anni, per i primi tre anni non si avrà diritto ad alcun risarcimento (il termine di tre anni sarebbe stato comunque ragionevole), mentre per ciascuno degli ulteriori sette anni di durata si avrà diritto ad ottenere una somma che varia dai 500 ai 1.500 euro per ogni singolo anno. All’interno di questa forbice risarcitoria (500 – 1.500 euro) spetta al giudice stabilire la somma concreta da riconoscere per ciascun anno di eccessiva durata, ed in questa operazione si dovrà tener conto, ad esempio, dell’esito del giudizio, del comportamento delle parti e della loro condizione economica, della natura e della rilevanza degli interessi coinvolti e del valore economico della causa.
Molte osservazioni si potrebbero fare in relazione alla normativa appena descritta. Si potrebbe, ad esempio, evidenziare che i risarcimenti ottenuti in base alla legge Pinto sono, per vari motivi, molto più bassi di quelli che si potrebbero ottenere ricorrendo direttamente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per far valere il diritto ad un processo di durata irragionevole (quest’ultimo, infatti, è un diritto riconosciuto e tutelato anche a livello europeo dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che, come tale, può essere fatto valere contro lo Stato italiano anche davanti al Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Ma forse l’aspetto sul quale maggiormente va posta l’attenzione sta nel fatto che la legge Pinto non ha previsto un rimedio contro l’irragionevole durata dei processi, ma si è semplicemente limitata a “prendere atto” della lentezza del sistema giudiziario italiano e della necessità di offrire una riparazione a chi resta “vittima” di tale lentezza. Forse sarebbe stato meglio andare alla radice del problema, per ridurre il più possibile i tempi della giustizia italiana, piuttosto che limitarsi a prevedere un rimedio per i danni da irragionevole durata dei processi.
Vi aspetto alla prossima!
Francesca Bonaccorsi