“L’Europa Sociale nel XX secolo – Le politiche sociali nella comunità europea dal Trattato di Roma alla Carta dei Diritti di Nizza” è il titolo del volume scritto da Rossella Di Beo e Carlo Scaramuzzino*, che verrà presentato martedì a Palazzo Gambacorti. Nel testo qui proposto per PaginaQ gli autori ci conducono lungo i temi principali del loro lavoro e della loro riflessione
Il Volume descrive l’evoluzione delle politiche sociali della Comunità Europea, dalle sue origini (Roma,1957) fino alla approvazione della Carta dei Diritti (Nizza,2000). Il Trattato firmato a Lisbona nel 2007, dopo il fallimento del tentativo di dotare l’UE di una vera e propria Costituzione, sostanzialmente non ha fatto altro che emendare i trattati precedenti.
Il trattato del 2007 – come ha avuto modo di riconoscere lo stesso presidente del Parlamento Europeo, il tedesco Martin Schultz – non menziona in alcun modo le caratteristiche e la portata della grande crisi che proprio dal 2007 stava colpendo le economie liberiste, né, di conseguenza, esprimeva una direzione di uscita da questa.
Col nuovo Trattato di Lisbona la Carta dei Diritti già proclamata a Nizza nel 2000, tanto osteggiata anche da intere leadership europee, politiche e del mondo dell’impresa, ha acquistato “lo stesso valore del Trattato”.
L’Europa ha rappresentato e rappresenterebbe ancora il tentativo più ambizioso di costruire un’unione politica in grado di dare una risposta democratica alla crisi della sovranità degli Stati; in grado cioè di produrre – per riprendere l’espressione gramsciana – l’esperimento più avanzato di “cosmopolitismo della politica” che sino ad oggi sia stato tentato nella storia umana.
Purtroppo, questo esperimento appare ora in crisi. La ragione di fondo di questa difficoltà non è di natura economica, ma risiede nella debolezza politica della costruzione europea. Le difficoltà economiche ne sono una conseguenza.
La crisi europea, è vero, è parte di una crisi globale, ma è soprattutto il risultato di una terapia inadeguata – le politiche di austerità – discesa da una diagnosi altrettanto sbagliata – quella delle irresponsabilità fiscale dei Paesi più indebitati.
Come conseguenza, molti Paesi – e tra questi anche l’Italia – si sono avvitati in un circolo vizioso, in cui aumenti di imposte e riduzioni di spese hanno depresso il reddito e impedito al rapporto debito/pil di ridursi.
La prospettiva più realistica – scontato che sia stata sventata la catastrofe della fine dell’euro – è un lungo ristagno, con tassi di espansione vicini allo zero.
“Possiamo concordare con le conclusioni cui giungono Rossella Di Beo e Carlo Scaramuzzino, secondo i quali l’Europa della democrazia, della coesione sociale e della solidarietà è nell’interesse di tutti i popoli: essa può esistere solo così, democratica e giusta, altrimenti sarà inevitabilmente destinata a disintegrarsi”
L’Europa è stata governata da una tetragona banca centrale e da una Commissione, che, insieme al Fondo Monetario Internazionale, hanno visto solo due cose: deficit e inflazione, e quindi si sono dati due soli strumenti sostanziali: controllo del deficit e forti tassi di interesse. Hanno dovuto sbattere contro crisi finanziaria e recessione, del tutto impreviste fino a quando non le hanno viste anche i ciechi, per prendere coscienza che c’è un problema di debito privato oltre che pubblico, e infine per attenuare marginalmente i vincoli del patto di stabilità e avviare la discesa dei tassi.
Anche a livello politico la crisi economica dell’Europa sembra segnare un passaggio epocale, già più volte annunciato. Le socialdemocrazie non sono apparse più in grado di offrire progetti alternativi a quelli basati su competizione e liberalizzazioni, non hanno offerto argini alle politiche di austerità in atto. Simbolicamente ciò è stato confermato dal fatto che due tra i maggiori esponenti socialdemocratici degli anni ’90, Blair e Schröder sono andati in pensione a lavorare per banche e multinazionali, e che l’ultima speranza socialdemocratica Zapatero si è rilevata un incubo per i giovani del suo paese.
In Europa – governata prevalentemente da governi di destra o di larghe intese liberiste, capaci di dettare legge a Bruxelles, ed alla cui politica si è anche ancorato il presidente francese Hollande, la cui elezione nel 2012 aveva generato vere speranze – la scelta di affrontare la crisi non mettendo minimamente in discussione le cause che l’avevano generata è stata una scelta deliberata ed ideologica.
In particolare, i governi europei hanno scelto, dopo una serie di vertici del tutto insufficienti a contrastare la crisi, la strada di un “Nuovo trattato” sottoscritto a Bruxelles il 2 marzo 2012 ed entrato in vigore il primo gennaio dell’anno successivo, per ora sottoscritto da 25 paesi su 27: un trattato che impone il cosiddetto “Fiscal compact”, dove l’armonizzazione non si intende riferita alle politiche fiscali ma a quelle di bilancio.
Nella pratica il Fiscal compact impone due regole fondamentali: l’introduzione del pareggio di bilancio nelle costituzioni nazionali ed il rientro annuo di 1/20 del debito pubblico fino a raggiungere il 60% del Pil. Il combinato disposto di queste due imposizioni, in particolare in una fase recessiva come quella che stiamo attraversando, proporrà misure ancora più dolorose a carico dei cittadini europei. Per l’Italia ciò comporterà un’ulteriore ricorso ai tagli alla spesa sociale e un massiccio ricorso alle privatizzazioni, in particolare dei servizi pubblici locali e delle grandi aziende di stato.
Il sindacato ha manifestato il grande bisogno di difendere il modello sociale europeo, perché, “quando esso è sott’accusa, è in pericolo l’intero concetto d’Europa”. Cosa fare allora? Cos’è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale? Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue, è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà.
Deve crescere l’idea di Europa alternativa a quella dell’austerity, del comando autoritario delle lobby tecnocratiche e finanziarie, l’idea che l’Europa semplicemente non c’è se non ci sono i diritti di libertà e i diritti sociali insieme. In Europa ci sono due forti correnti di pensiero, che sembrano antagoniste, sembrano combattersi l’un l’altra, ma sono in realtà profondamente complici.
La prima è grosso modo contenta di come le cose stanno in Europa, anche se è consapevole che alcuni aggiustamenti sono necessari: l’unione bancaria, il Fondo salva-Stati, lo stesso Trattato di Lisbona furono tentativi di compiere piccoli progressi. Progressi che si sono rivelati completamente insufficienti. L’epoca dei «piccoli progressi», del cosiddetto gradualismo, è finita e urge prenderne atto.
La seconda corrente è stanca dell’Europa, in parte perché disillusa e indignata, in parte perché mai è stata convinta che l’unificazione del continente, e la diminuzione dei poteri sovrani dei suoi Stati, fossero una cosa auspicabile. Non è priva di sogni e speranze di cambiamento, questa seconda corrente, ma sia il sogno che il cambiamento sono del tutto illusori: già dal dopoguerra, e più che mai oggi in un mondo globalizzato, i classici Stati-nazione hanno perso la propria sovranità. Propugnare il ritorno alla vecchia sovranità significa fingersi re di piccoli staterelli e mettersi, nel fatti, in mano ai mercati internazionali.
Ambedue le forze sono fondamentalmente conservatrici. Bisogna viceversa puntare a salvare l’idea di Europa – cioè di una potenza superiore agli Stati che la compongono, in grado di restituire loro la sovranità che hanno perduto – ma cambiando l’Unione in modo radicale, facendo capire che i cittadini vogliono rivoluzionarla addirittura. L’Europa deve darsi finalmente una Costituzione, che sia scritta dai popoli e dunque dal Parlamento europeo. Deve mettere insieme risorse finanziarie sufficienti per avviare un Piano Marshall di ripresa che sia fondato sulla solidarietà piena tra gli Stati più deboli e quelli più forti. Il sindacato tedesco (DGB) lo propone da tempo.
Bisogna pensare ad un europeismo nemico delle piccole patrie, nemico di ogni forma di nazionalismo. È un europeismo che non propone un ritorno indietro, ai confini degli Stati nazionali ma invece propone di andare oltre, andare avanti. L’Europa della coesione sociale, della solidarietà e della democrazia è nell’interesse di tutti i popoli. L’Europa può esistere solo se democratica e giusta, altrimenti è destinata a disintegrarsi .
La sinistra Europea sta provando a crescere, battendosi per una Europa democratica, sociale ed economica, con alcune priorità politiche. La Democrazia, in Europa, è in ritirata.
Ed allora, proviamo a ripartire dai fondamentali, dalla concezione spinelliana dell’unità continentale. Senza un governo politico unitario e legittimato democraticamente anche la moneta unica è destinata a entrare in una spirale di crisi irreversibile… In tempi di Fiscal compact, è bene che ci sia un social ed un global compact fondato sulla condivisione di regolamenti che impediscano la circolazione alle merci prodotte in violazione di norme sul lavoro e sull’ambiente. Rafforzare il sindacato europeo, lottare per il cambiamento di regole che riportano all’Ottocento non può che essere una battaglia di tutti i cittadini europei. Così bisogna tendere all’unificazione effettiva delle politiche fiscali e di welfare, estendendo i diritti e non contraendoli, soprattutto nei settori fondamentali della sanità e della formazione.
Bisogna recuperare e rendere ancora più efficace il modello sociale perduto.
“L’Unione Europea sarà democratica o cesserà di esistere. Come ci si può arrivare?”, Grazie alle dinamiche delle lotte sociali. Spezzando le catene della passività sociali, sulle quali si è fondata la costruzione dell’Unione europea dopo la caduta del muro di Berlino. Difendendo l’interesse sociale europeo, trasformando le resistenze sociali che continuano ad emergere e crescere in una occasione di solidarietà e strategia collettiva per tutti i popoli d’Europa
Rossella Di Beo e Carlo Scaramuzzino
*Rossella Di Beo, 58 anni, responsabile “ Servizi per la tutela della non autosufficienza ASL 5 Area Pisana”, laurea specialistica in Gestione e Programmazione dei Servizi Sociali (Scienze Politiche, Università di Pisa), con tesi sulle politiche sociali della UE. Assistente Sociale e Mediatrice Familiare, ha partecipato a numerosi seminari sugli aspetti teorico – pratici dei servizi sociali.
Carmelo (Carlo) Scaramuzzino, 69 anni, già dirigente dell’Ufficio Politiche Comunitarie della Provincia di Pisa. È stato docente a contratto di Politiche Comunitarie del Lavoro, facoltà di Scienze Politiche di Pisa e di Elementi di Organizzazione della Pubblica Amministrazione, Corso di laurea specialistica Scienze per la Pace – Università di Pisa. Ha curato il volume “L’Europa e il lavoro” Ets Pisa, 2004. Amministratore locale fino al 2013, è copresidente dell’Assemblea regionale Toscana di “Sinistra Ecologia Libertà”.
– Roberto Castaldi, Affiliato Istituto Dirpolis, Scuola S.Anna Pisa
– Pompeo Della Posta, Professore Associato Economia Politica Università Pisa
– Vincenzo Mele, sociologo, ricercatore Università Pisa.