Sogno di premere quel pulsante, di torcere quella leva, di strizzare quella croce. Mi rifletto tra le scie dei fosfori, e inseguo una vittoria. A sua volta parte di altre vittorie. Dice, perché fare videogiochi per mestiere dice, ci sono tanti perché e il primo perché, no, facciamo il secondo. Il secondo perché è perché da qualche anno a questa parte la stragrande maggioranza dei giochi sembra un lavoro.
No, non un lavoro. È molto peggio: da qualche anno a questa parte la stragrande maggioranza dei giochi sembra ciò che vogliono spacciarti oggi come lavoro, soprattutto se hai meno di trentacinque anni. Quindi qualcosa di ggiovane, colorato, ripetitivo, inutile, vagamente simile a ciò che fanno i tuoi, che si fa insieme a tanti altri come te, non sei contento? Ma che soprattutto dovresti ringraziare ogni arcifottuterrimo minuto della tua esistenza in vita solo per l’irripetibile onore di poterlo fare.
Quindi ti metti lì e disegni i tuoi bravi pixellini, stando particolarmente attento a non prestare attenzione al fatto che magari non fai faville ma che soprattutto hai gli occhi marci da anni e non puoi quindi vantare una chissà quale produttività. Altra cosa da segare subito, o in alternativa reprimere costantemente, è la speranza che qualcuno ti s’inculi. Prima lo fai e prima il Tao di un assoluto, arabescato menefreghismo ti conquista.
Se l’acume che credi di avere tu lo possedessi davvero, capiresti che il Cielo ti ha lastricato il futuro di eccellenti fallimenti proprio in un’ottica positivista, più che artistica. Sei nato con una sedia sotto il culo ed è ora di farne qualcosa di buono. Venendo su e giocandone a migliaia hai capito che l’anima di un gioco e la sua verità spesso si trovano esattamente nello spazio tra due pixel, nelle pause spesso assai più che negl’impatti.
Perlomeno una soddisfazione te la sei tolta, ed è quella di vedere un buon numero di persone assolutamente incuranti, anzi, diresti soddisfatte degli effetti orrendi delle loro azioni sul prossimo tuo e sapere che no, per quanto strilli il MOIGE, i videogiochi non c’entrano nulla. Non è Carmageddon a desensibilizzare alla violenza, o perlomeno non potrà mai farlo quanto una statistica o un velivolo da combattimento senza pilota.
Che poi il pilota da qualche parte c’è. Anche lui va a nanna la sera e sogna. Sogna di premere quel pulsante, di torcere quella leva, di strizzare quella croce.
Tommaso Mongelli