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ClassiQue #2

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Sì, sono stato invitato dalla American Recorder Society negli Stati Uniti perché ero stato eletto Interprete di Flauto Dolce del Millennio. Strano, no? Non te ne puoi liberare. Ho detto loro che non intendevo andare, non lo hanno compreso! Ho scelto una nuova vita.
Non l’ho detto a loro, ma lo dirò a te adesso, la verità è che non riesco a sopportare il suono del flauto dolce.

Frans Brüggen intervistato da Ernesto Schmied per la rivista Golberg
– 12 gennaio 2000

Ora, non siamo in questo luogo per fare il paragone di peso tra le perdite umane e culturali:
certo è che abbiamo attivato un enorme giro di vite a speculare sulla morte e sul valore postumo di Claudio Abbado, meritatissimo peraltro, mentre sulla scomparsa di Frans Brüggen, avvenuta il 13 agosto scorso, si è potuto leggere poco più di qualche articolo on-line sulle riviste specializzate.
Sicuramente il fattore nazionale ha pesato molto, ma forse qualcosa ha contato anche quello strano, impronunciabile nome con l’umlaut.

Del resto lo straniero dalle nostre parti, a meno che non si chiami Steve Jobs oppure Sting, è d’abitudine materia inconoscibile e di conseguenza concetto da cui discretamente rifuggire.
Lo straniero ed i suoi strani modi perché Frans Brüggen è stato a lungo tempo outsider anche all’interno dell’ambiente in cui muoveva i passi e specialmente i suoi primi: il blasonato universo della musica cosiddetta colta.

Intendiamoci bene fin dall’inizio, stiamo parlando di un fuoriclasse che, insieme a pochi altri, ha completamente riformato il concetto di studio e di articolazione del discorso seguendo senza compromessi una strada sperimentale che è stata capace, nel giro di una cinquantina d’anni, di cambiare radicalmente la nostra concezione di prassi esecutiva in musica.
 

Non che non abbia avuto in vita i meritati riconoscimenti ed una lunghissima carriera (anche se per uno che ha diretto il Concertgebouw di Amsterdam tante altre medaglie al valore non servono): nel 1955, a soli 21 anni, diviene professore di flûte à bec al Conservatorio de L’Aia e successivamente, sempre come insegnante, verrà invitato alla Harvard University come “Erasmus Professor” e alla Berkeley Univeristy come “Regent’s Professor”.
Sebbene mr. Brüggen passerà alla storia, riscrivendola, grazie alla militanza nell’ormai mitologico trio in compagnia del clavicembalista Gustav Leonhardt e del violoncellista Anner Bylsma col quale sconvolsero le addormentate platee del pianeta per mezzo delle loro folgoranti esibizioni.

Del 1981 la fondazione dell’Orchestra of the Eighteenth Century – una vera e propria orchestra sinfonica che arriverà a contare in organico fino ad una sessantina di musicisti, tutti specialisti nell’esecuzione della musica del 18° e 19° secolo, provenienti da più di 20 differenti paesi – che lo porterà ad abbandonare per sempre il flauto per varcare la soglia proibita del fine-barocco ed “osare” mettere piede nella tradizione classica e romantica.
 

Perché la filologia, per usare un’inflazionata e poco consona parola, non è stata solo e semplicemente l’abitudine ad impiegare strumenti d’epoca per suonare l’antico ma piuttosto un pretesto per uscire da quello schema incancrenito di apprendimento passivo e di esecuzione sempre inesorabilmente appiattita sopra a consolidati clichés primo-novecenteschi che per molto, troppo tempo hanno afflitto la produzione, la proposizione e la fruizione della musica che chiamiamo classica.

E per quanto ha rappresentato l’introduzione nei conservatori e nelle sale da concerto di una certa filosofia Do It Yourself che metteva provocatoriamente in dubbio quello che si era prodotto ed ascoltato fino ad allora, provando a inventare nuove sonorità e nuove intuizioni attraverso il riuso e la rigenerazione di antichi mezzi.

Una strada in qualche modo imboccata parallelamente anche dal pianista Glenn Gould, che filologo non era, e che ha portato in qualche caso a grosse esagerazioni contrarie persino alle scelte di carattere storico, basti pensare all’incisione di Bylsma delle tre sonate per viola da gamba e clavicembalo di Bach su violoncello piccolo e organo positivo (una specie di bestemmia: ma chi è in grado, ascoltandole, di fare anche un solo appunto da una prospettiva strettamente bachiana?) oppure l’esecuzione dei concerti per due clavicembali con l’uso di due fortepiani, strumento di cui Bach diffidava, suonati amplificati (!) da Katia e Marielle Labèque in compagnia del nostrano ensemble il Giardino Armonico.
Un ossimoro? No di certo.
Sotto lo spesso strato di polvere qualcosa in questi anni si è mosso, eccome.

E poi via, ad osservare bene l’immagine del video che segue si può pensar male ed azzeccarci con buona approssimazione: questi fumavano marijuana e si dilettavano a soffiare a tempo dentro dei tubi di legno con i buchi: Brüggen è nato e vissuto ad Amsterdam, ricordiamocelo.
Non che sia troppo importante ma tutto può dare una mano: dovevamo avvicinare i giovani alla cultura?
Ecco fatto.
 

Signori e signore: i Sour Cream, letteralemnte “panna acida”, trio improbabile di flauti diritti ed altre diavolerie a fiato, corto.
 
 

E per ascoltare l’opinione direttamente dalla sua fonte: https://www.youtube.com/watch?v=y_DCGCl15BQ

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Pubblicato il: 30 agosto 2014

Argomenti: ClassiQue, Quaderni

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