Hinengaro torna a parlare dei neuroni specchio per analizzare gli sviluppi e la nuova prospettiva all’interno della psicologia dei conflitti interumani o interistituzionali. (Qui la prima puntata)
Al di là delle posizioni “sul campo” di merito legate a contenuti ideologici specifici, è interessante indagare la “collusione” di contesti e linguaggi psico-corporei che i contendenti in maniera impressionante mostrano. Si pensi ad esempio al linguaggio dei diversi uomini politici che, al di là delle differenti posizioni o punti di vista relativi ai contenuti, “condividono” una comune struttura cognitiva, linguistica e corporea, come appare con evidenza in numerosi dibattiti o incontri in arene televisive.
Infine, merita un’attenzione anche un particolare fenomeno segnalato da alcuni sperimentatori. Cito brevemente un dato sperimentale.
Sono stati selezionati due gruppi. Il primo è esposto a brevi visioni (filmati) di contesti e situazioni che esprimono, tensione, violenza, disordine, disarmonia, per esempio un gruppo di ultras che si scontrano, spazi umani sovraffollati, ecc.
Un secondo gruppo viceversa è esposto a brevi visioni (filmati) di contesti e situazioni che esprimono, calma, equilibrio, ordine, armonia, come ad esempio un concerto di musica classica, spazi umani ben arredati, dipinti e oggetti d’arte di pregevole fattura.
Successivamente, ai due gruppi è somministrata una batteria di test di cultura generale, di tipo linguistico, logico-matematico. Il secondo gruppo ottiene le migliori performances.
Ciò che colpisce è che non si tratta di visioni legate direttamente ai test somministrati, ma semplicemente a contesti: contesti di ordine o disordine, aggressività o serenità. Non vi è dunque una specularità ma ciò che potremmo definire una “associazione allargata”. Cioè l’associazione di determinati contesti/climi a specifici prerequisiti favorenti le performances cognitive.
Ciò fa supporre (come tra l’altro altri studi hanno confermato) che vi sono contesti in cui apprendere ed eccellere è più facile e spontaneo e altri in cui è più difficile.
Perchè anche la prestazione cognitiva è diversa a seconda dei contesti? Perchè alcuni contesti (gruppo 2) e alcuni elementi che appaiono marginali (colore della parete, luce nella stanza, verde fuori dalla finestra, rumori di fondo, insieme ad aspettative, qualità delle relazioni di figure adulte e dei pari) aiutano l’attenzione, la creatività, la motivazione e l’attivazione di circuiti neurali che favoriscono le performances.
Vittorio Gallese mostra una profonda perplessità nei confronti del solipsismo delle scienze cognitive “classiche”: “Credo che questo paradigma sia giunto ormai al capolinea. La scienza cognitiva classica ha concentrato i propri sforzi soprattutto nel chiarire le regole formali che strutturano una mente essenzialmente solipsistica, prescindendo dal contesto interpersonale in cui la mente si sviluppa. Si è molto meno indagato su ciò che innesca il senso di identità di cui comunemente facciamo esperienza quando entriamo in contatto con i nostri consimili”.
Ma come si spiega la violenza nei confronti dei nostri simili, l’aggressività, i genocidi. Cosa succede? Non funzionano i nostri neuroni specchio?
No, probalilmente uccidiamo, eliminiamo il nostro simile perchè ci costruiamo (o ci costruiscono ad hoc) lentamente e ideologicamente un’immagine preventiva dell’altro dissimile da noi.
La storia applica il medesimo schema: l’altro è diverso, profondamente diverso da noi, è un indigeno, ha un altro colore della pelle, altre abitudini, forse non ha un’anima, dunque non è un uomo, dunque possiamo schiavizzarlo, sterminarlo.
Ancora Vittorio Gallese in una recente intevista, in maniera esemplare descrive questo meccanismo:
“I neuroni specchio non ‘sentono’. È la persona che comprende, al livello dell’esperienza ciò che prova l’altro, anche grazie al meccanismo di simulazione sostenuto dai neuroni specchio. Ciò detto, la questione è molto interessante ed esemplifica il possibile contributo delle neuroscienze alla discussione etica. Credo che la capacità di fare esperienza di ciò che prova l’altro non implichi necessariamente l’impossibilità di usare la violenza contro di lui. Mi sembra una visione troppo deterministica. Si potrebbe, al contrario, sostenere che non c’è miglior sadico di chi sa precisamente quali siano le conseguenze della propria violenza su chi la subisce. Empatizzare e simpatizzare con l’altro sono due processi distinti. Se vedo gioire il mio avversario, posso comprenderne la gioia, grazie a un meccanismo empatico, senza necessariamente condividere lo stesso sentimento, ma anzi più probabilmente derivandone un sentimento negativo.
Non va inoltre dimenticato come storicamente la violenza di massa perpetrata nei confronti dei nostri simili si sia spesso accompagnata al tentativo di dimostrarne la supposta alterità e sub-umanità. Basta pensare allo sterminio delle popolazioni autoctone del continente americano o australiano o all’olocausto degli ebrei. In tutti questi casi all’altro viene negato la status di essere umano, forse anche per ridurre con un meccanismo top-down di tipo cognitivo, l’impatto emotivo indotto dall’esperienza delle sofferenze cui l’altro viene assoggettato”.