Sobborghi residenziali di Washington, 1981. Elizabeth e Phillip Jennings (Keri Russell e Matthew Rhys) sono due garbati e avvenenti coniugi, amabili testimonial del sogno americano: villetta con giardino, Chevrolet in garage, coppia di figli educati e graziosi. Sospettiamo che lei sia promiscua, lui pervertito, i bambini sociopatici: nessuna deviazione psicologica, solo un’identità segreta. I due sono infatti pericolosissime spie del KGB infiltrate negli Stati Uniti per punire i porci capitalisti e sovvertire il sistema americano.
L’idea iniziale concretizza il sospetto (di maccartiana memoria) che tra le maglie della middle class americana si nascondesse il nemico, il commie atteggiato da persona perbene, capace di far deflagrare dall’interno il prezioso ordine costituito. In effetti i coniugi Jennings, stanziati da tre lustri in terra USA, sembrano proprio impeccabili esponenti della laboriosa borghesia statunitense. In realtà, manipolano, trafficano e tramano per annientare i piani di Reagan, facendo trionfare definitivamente l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Questa spy story ha tutto: l’inquietante intrigo della Guerra Fredda a fare da sfondo, travestimenti ed inseguimenti spettacolari, e una tensione, una tensione continua, declinabile in paranoia angosciante così come in azione febbrile e incalzante.
Ma la storia di spionaggio diventa anche domestic drama, quando i Jennings si ritrovano intorno ai Lari. Proprio nelle dinamiche comportamentali ed educative esplode il conflitto identitario dei sovietici, costretti a una facciata perfettamente statunitense, ma avvinti da frustrazione e ripensamenti se si tratta di permettere alla figlia di avvicinarsi alla religione, o di legittimare il desiderio del figlio di possedere beni materiali come videogiochi e automobili.
The Americans è, fondamentalmente, uno studio sull’identità. “If it looks like a duck, quacks like a duck and walks like a duck, it’s a duck”, dicono gli americani. E allora chi sono i Jennings? Spie spietate o cordiali borghesi sforna brownie? L’identità è forgiata dall’appartenenza e dalla fedeltà, oppure è plasmata dall’esistenza esteriore e quotidiana, da ciò che rappresenti?
Questo show è coinvolgente, non solo come storia di spionaggio o della famiglia Jennings, ma perché influenza il modo di pensare del telespettatore, costringendolo a dismettere la forma mentis occidentale che impone di vedere tutto bianco o nero. Lo show ci mostra che ogni cosa è dotata di sfumature, che i Jennings sono sì spie del KGB, ma anche rispettabili cittadini americani; che l’antagonista, l’intuitivo agente del controspionaggio dell’FBI, minaccia concreta alla copertura degli agenti sovietici, è in realtà completamente all’oscuro del suo ruolo, e crede che i Jennings non siano altro che i suoi simpatici vicini di casa.
Tutto, in The Americans, è un gioco di sfumature, di prospettive: un relativismo continuo, incessante, sovente destabilizzante, che trova la sua più raffinata esemplificazione della story line di Nina, donna che si inserisce nella tradizione delle superbe eroine tragiche russe. L’impiegatuccia dell’ambasciata sovietica arrotonda il miserrimo stipendio sfruttando il sistema economico liberista: scoperta e ricattata dagli inflessibili agenti dell’FBI, è costretta a piegarsi alle circostanze, mentendo, tradendo, dissacrando, in un gioco che difficilmente le riuscirà vincere.
Questo show contestualizza personaggi e vicende mettendoli a duro confronto con la realtà storica dell’epoca: il senso di precarietà, di sospetto, di paranoia tipico della Guerra Fredda invade le esistenze dei personaggi, mentre l’appartenenza, ostinata e irremovibile, viene messa alla prova in situazioni limite oppure lentamente corrosa dalla quotidianità e dalle abitudini.
La seconda stagione (decisamente all’altezza della prima) si conclude promettendo un rinnovamento radicale nella serie, con l’introduzione inaspettati e pericolosissimi antagonisti: non resta che attendere l’inizio della terza stagione, che la FX trasmetterà all’inizio del 2015. Dasvidania, compagni.