Una serie cruda, che usa i suoi personaggi per descrivere una società totalmente estranea al concetto di empatia, bloccata dalla sua incrollabile necessità di incolpare sempre qualcun altro
A Modesto, piccola cittadina della California, un veterano di guerra e la moglie ex reginetta di bellezza vengono aggrediti nella loro casa. L’uomo muore, la donna è ridotta in fin di vita. I due giovani coniugi sono bianchi; i tre uomini sospettati di averli aggrediti tutti di colore.
La madre della vittima invoca il crimine d’odio: “come chiameremmo questo delitto se tre bianchi avessero aggredito un nero?” chiede in ogni salotto televisivo. Ed è così che, pur tra la scarsità dei fatti, cominciano a schiumare le opinioni. La cronaca del delitto mediaticamente perfetto si muove secondo un copione rigoroso, rassicurante: il clamore è sollevato, l’indignazione sollecitata, i colpevoli serviti. Ma, com’è ovvio, la realtà non è così manichea, così prevedibile e così poco destabilizzante.
Chi erano davvero i due coniugi belli e caucasici? Chi ha cercato di ucciderli? E perché l’ha fatto? La serie prende le mosse da queste domande, si muove per risolvere un omicidio: per undici puntate lo spettatore formula delle ipotesi, ma la certezza non arriva neppure con l’epilogo, quando una “verità” è sì raccontata, ma non creduta oltre ogni ragionevole dubbio.
I personaggi, gli eventi e i temi che ruotano intorno al misterioso omicidio sono, com’è prevedibile, tutt’altro che facilmente gestibili. La serie si muove sul terreno del politicamente corretto con coraggio, mettendo da parte falso buonismo e senza passare sotto silenzio argomenti che hanno infiammato le città e scandalizzato gli americani negli ultimi anni. Non solo la tendenza a individuare come colpevole l’uomo nero, ma anche la superficiale aggressività con cui la polizia svolge il suo compito. C’è il sospettato messicano che sfugge alla polizia scappando in un parcheggio; la sua fuga viene arrestata con un colpo di pistola. Il gesto che ha come sola conseguenza la zoppia perpetua a cui il poliziotto ha condannato un giovane di 26 anni. O ancora, il bulletto del riformatorio brandisce una chitarra contro gli agenti della polizia penitenziaria: la calma è ristabilita velocemente e tragicamente, come nel caso di Eric Garner.
American Crime è una serie cruda, che usa i suoi personaggi per descrivere una società totalmente estranea al concetto di empatia, bloccata dalla sua incrollabile necessità di incolpare sempre qualcun altro: i bianchi se la prendono con gli immigrati, gli immigrati regolari coi clandestini, i clandestini con gli spacciatori, gli spacciatori con i tossicodipendenti, and so on. I suoi protagonisti sono isolati, spesso vinti, schiacciati da un sistema disinteressato e dimentico delle loro esigenze. Forse, l’unico momento in cui bianchi, messicani e afro-americani sembrano uguali è proprio nel momento in cui sono totalmente disperati, privati di ogni possibilità di reazione e di rivalsa, impotenti.
La serie fa mostra di un intreccio di personaggi degno di un romanzo ottocentesco: tutti si evolvono e si realizzano pienamente nell’ultima puntata della serie. Parenti della vittima e della sopravvissuta, presunti colpevoli: alcuni godono di una seconda e beatificante possibilità, altri, non diversamente meritevoli, no. Insomma, agli americani piace pensare che Karma is a bitch, ma nella serie regna piuttosto la Fors Fortuna.
La ABC, canale di proprietà della Disney in cui trionfano i drama di Shonda Rhimes, esce dalla comfort zone mandando in onda questo show che non sfigurerebbe nel palinsesto dell’HBO: gran parte del merito spetta sicuramente al creatore, John Ridley, già sceneggiatore del durissimo film 12 anni schiavo.
Preziosa, anche la regia. Le qualità attoriali degli interpreti (tutti superbi: il premio Oscar Timothy Hutton, l’ex casalinga disperata Felicity Huffman e la rivelazione Richard Cabral) sono celebrate in dialoghi che mantengono la telecamera fissa sul primo piano dei protagonisti; l’osservazione è meno superficiale, l’effetto più realistico, sofisticato.
La prima stagione si è da poco conclusa; già garantita una seconda, così come la presenza di Hutton e Huffman. I can’t wait.