di Ranieri Salvadorini
Gideon Levy, storica firma del quotidiano israeliano della sinistra liberal, Haaretz, è intervenuto il 29 Novembre a Lucca per la “Giornata dei diritti umani 2014”, ospitata da Pax Christi nell’ambito della “Campagna Ponti non Muri”.
Nell’intervento, messo a disposizione in un video, Levy ha criticato le politiche di occupazione di Israele, le retoriche della propaganda, l’ignoranza (collusiva) della maggior parte degli israeliani, che “poco o nulla sa” delle atrocità perpetrate dal Governo in nome della “sicurezza”, vera “religione” di Israele per giustificare anche il furto sistematico delle terre palestinesi. E altro ancora. Un intervento autorevole, duro, incisivo. Tutto passato sotto silenzio.
I media e il ricatto dell’antisemitismo – In Italia, infatti, più che in altri paesi, è efficace il “ricatto morale” per cui chi si esprime contro le politiche sioniste di occupazione e colonizzazione di Israele è antisemita. Questa, almeno, è una delle spiegazioni più accreditate al fatto che i media occidentali abbiano cancellato, nei fatti, la narrazione palestinese per oltre 40 anni. Sorte analoga, dunque, per le voci del dissenso israeliano. Ecco che non stupisce che l’influencer israeliano sia sconosciuto ai più, né che non “faccia notizia”. Eppure di “cose” ne ha dette, con la solita chiarezza. Vediamone alcune.
La guerra in Israele è anche semantica, e la propaganda piega il linguaggio ai propri scopi
Chiamare le cose per nome – I lettori di Haaretz diminuiscono giorno per giorno. Racconta Levy: “L’ultimo articolo che ho scritto su Gaza ha provocato il crollo di tremila abbonamenti. Ma Haaretz non scende a compromessi”. E infatti la “guerra”, in Israele, è anche semantica. Per questo il giornalista dà alcuni esempi di come la propaganda pieghi il linguaggio ai suoi scopi.
Quando un palestinese di sei anni viene ucciso da un israeliano, viene definito ‘giovane’ o semplicemente ‘un palestinese’, quando invece si tratta di un israeliano di 18 o 19 anni allora lo si chiama un nostro “figlio”
La lista delle parole chiave della propaganda prosegue: “Chiunque sia a favore dell’occupazione, dei crimini e della brutalità viene chiamato pro-israeliano, chiunque (…) sia in favore del diritto internazionale viene chiamato anti-semita”. E chiude: “quando un palestinese di sei anni viene ucciso da un israeliano, viene definito ‘giovane’, o addirittura ‘adolescente’ o semplicemente ‘un palestinese’, quando invece si tratta di un israeliano di 18 o 19 anni, che viene ucciso da un palestinese, allora lo si chiama un nostro “figlio”, un “bambino”. I soldati israeliani, in parole povere, non uccidono i bambini. Questi, al limite “trovano la propria morte”, “spariscono”, o “muoiono delle proprie ferite”.
La religione della sicurezza
Nè complessità, né “esigenze di sicurezza”: è colonialismo. Parlare di “complessità della situazione”, o di simmetria delle parti (quando da un lato c’è una strapotenza militare altamente tecnologica e dall’altra una forza primitiva con limitatissima capacità di resistenza), per Levy sono due modi per nascondere la verità. Strategie retoriche che convergono in quelle che l’intellettuale israeliano chiama la “religione di Israele”. E cioè: la “sicurezza”. Per giustificare i massacri (come il recente “Margine Protettivo”), ma soprattutto “perché il vero problema, agli occhi di Israele, è quello di accaparrarsi più terre possibili. La parola giusta per questo è ‘colonialismo’”. Da riassumere in breve. La costruzione di Israele è iniziata nel 1948 ed è figlia della logica coloniale. In questa prospettiva, dice Levy, si possono comprendere, bene o male, i crimini di guerra che all’epoca ci furono. “Ma oggi che Israele è diventata una potenza economica, militare e culturale questo è inaccettabile”. Insomma, va dritto al punto: dal 1948 non è cambiato nulla.
La comunità internazionale? Sa cosa dovrebbe fare, ma è inerme. Poiché si è di fronte a violazioni del diritto internazionale, che vanno avanti da decine di anni, la soluzione è semplice: “La comunità internazionale sa perfettamente cosa deve fare. Ha saputo cosa fare quando si trattava dell’apartheid nell’Africa del Sud. Sapeva bene come muoversi ed è stata molto efficiente nel farlo. Le differenze tra quella situazione e questa di oggi sono minime”. In sostanza, tutto dipende, secondo Levy, dalla reale volontà degli Stati Uniti di porre fine all’occupazione. “Anche se, a volte – ammette – è difficile anche fare un discernimento tra i vari super-poteri: Israele e gli Stati Uniti decidono un po’ tra di loro”. Ma gli Usa sembrano paralizzati.
“Stati Uniti e Europa? Paralizzati” Non fanno il vero interesse di Israele. Gli Stati Uniti sono paralizzati dalle lobby. “Non solo quelle ebraiche, ma anche quelle cristiane. E credo che Obama sia stato bloccato completamente nei suoi intenti”. Ma c’è la volontà di dargli credito, chiosa il giornalista, che al tempo stesso rimprovera un’Europa inerme, irretita nel proprio passato. “L’Europa è paralizzata dagli Stati Uniti, chissà perché. Ed è paralizzata anche dalla sua storia”. Dopo aver ammesso una certa sorpresa per la direzione presa dall’Europa, per Levy “chiunque voglia veramente bene a Israele dovrebbe cercare di porre fine ai suoi crimini”. È un po’ come con un figlio tossicodipendente: “Israele ha la dipendenza dall’occupazione”. Così, non lo si aiuta.