Tratto dalla pièce teatrale Le prénom di Alexandre de la Patellière e Matellière, il film, sotto lo sguardo della Archibugi mostra la vita vera, stupendoci un po’, scioccandoci un po’
…non ti preoccupare
di tempo per cambiare ce n’è
così ripensami tra vent’anni…(L. Dalla)
Il nome del figlio è stato una doppia sorpresa. La prima: quella di aver pensato – nella prima mezz’ora – di aver sbagliato film; la seconda: aver riconsiderato il film e averlo anche apprezzato nella seconda parte.
Il nome del figlio è quello che Paolo – un Alessandro Gassman in una parte che gli calza a pennello, un po’ sbruffone, un po’ burlone – e Simona, dovrebbero dare al loro bambino (maschio) che è in arrivo. Simona, bella ma tonta, o almeno così sembra, è interpretata da Micaela Ramazzotti che sfoggia il suo vero pancione con disinvoltura e che forse, con questo film, ha per la prima volta dimostrato di saper recitare parti diverse da quelle un po’ verdoniane di belloccia romana, tutte tette e poco cervello. Il nome però non sarà quello vero: Paolo userà questa serata tra amici per fare uno scherzo a sua sorella e suo cognato – la Golino in versione pacata e malinconicamente di mezza età, e Lo Cascio in versione intellettual-depressivo – e il suo amico d’infanzia Claudio – un Rocco Papaleo che regge bene la parte del suo personaggio, un po’ ambiguo e stravagante.
La serata, un po’ sospinta dall’alcool e dallo scherzo che va a far innervosire i tre ”spettatori” va pian piano a trasformarsi in un momento catartico di confronti profondi, un salto verso la libertà di dire tutta la verità trattenuta da anni, nel silenzio dei segreti, un momento di legittimazione nel dirsi davvero quello che si pensa uno dell’altro.
E se la famiglia Pontecorvo, di rigorosi intellettuali di sinistra fosse solo una facciata ad altre situazioni sotterranee che si spalancano con una facilità sorprendente? La tensione sale, il nervosismo fa alzare la voce, che si incrina. Spuntano il senso di difesa, il senso di sconfitta, il dolore pungente del “non detto” che esplode rompendo la diga delle emozioni e dei sentimenti. E qui, proprio al centro della scena teatrale – scolpita la fotografia limpida nel braccare ad uno ad uno tutti i personaggi, resi esemplari dai primissimi piani e dai particolari che sembrano andare a esplorare la loro interiorità più sepolta – parte la canzone di Lucio Dalla “Telefonami tra vent’anni”. È qui che il film si trasforma, in qualche modo matura, si fa ricerca emotiva più consapevole, tra le immagini montate alternativamente, il passato dei ragazzini in bianco/nero, il presente degli adulti che hanno appena consumato la tragedia del buttare giù la maschera (belle anche le immagini in bianco/nero riprese dal drone dei bambini, un occhio-alternativo a quello della macchina da presa).
Proprio la cesura della canzone, tra parole e passi di danza, che simulano un cerchio ideale di legami mai rotti veramente, fa emergere, in disparte, la figura di Simona, esterna al gruppo e alla sua rievocazione nostalgica d’affetto. Sarà proprio lei, con un bel monologo drammatizzato e teatralmente recitato a mostrarsi la più “normale” fra tutti, quella che sente le cose, sa leggere le persone, capisce le intenzioni.
Il dramma si ricucirà attraverso l’accettazione e la disponibilità ad immedesimarsi nell’altro, anche se ci ha delusi. Il finale, rivoluzionario nel suo show più intimo, mostra in diretta il cesareo della Ramazzotti – e dunque di Simona – a cui sfugge un bellissimo sguardo in macchina, quello di una madre che ha appena messo al mondo sua figlia. E noi, spettatori morbosi, introdotti tra le segrete stanze del parto, vediamo che il bimbo nasce (femmina!) e insieme a lui anche le emozioni (immaginiamo anche di Virzì: suo padre). Tratto dalla pièce teatrale Le prénom di Alexandre de la Patellière e Matellière, il film, sotto lo sguardo della Archibugi mostra la vita vera, stupendoci un po’, scioccandoci un po’. Vedetelo.