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InQuadriamo il diritto Si dice o non si dice? Il linguaggio del diritto tra regole e strafalcioni

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Spesso usiamo termini propri del diritto in modo errato: canone di affitto, rescissione del contratto, patria potestà. Inquadriamo il diritto vi guida nei meandri del lessico giuridico


Cari Lettori,
oggi più che “inquadrare il diritto” proveremo a “inquadrare” insieme alcuni termini tipici del diritto che spesso, anzi spessissimo, vengono utilizzati decisamente a sproposito.

Canone di affitto
Quando si parla di “affitto” e di “canone di affitto” si commette quasi sempre un errore, anche se molto comune: scagli la prima pietra chi, in vita sua, non ha mai detto “ricordami di pagare l’affitto” o non ha mai chiesto “ma tu quanto paghi di affitto?”. L’errore, come ho detto, è comune e frequentissimo, ma ciò non toglie che sia importante sapere che di errore, appunto, si tratta.
Il contratto di “affitto” è un contratto molto particolare che ha per oggetto beni fruttiferi (un terreno ad uso agricolo, un frutteto, un macchinario che produce azoto, un impianto per la produzione della carta ecc.). Tuttavia, il termine “affitto” è ormai entrato nel linguaggio comune come sinonimo (errato) di “locazione”. Quando siete più che sicuri di aver preso “in affitto” un appartamento, in realtà ciò che avete stipulato è un contratto di “locazione”, e quando dite che andate a pagare “l’affitto” in realtà dovreste dire che state andando a pagare il “canone di locazione”. Ok, lo ammetto, dire “vado a pagare il canone di locazione” è parecchio pesante, ed è molto più pratico e semplice parlare di “affitto”, però almeno dopo questa piccola precisazione saprete qual è il termine corretto da usare per essere impeccabili dal punto di vista giuridico (pur correndo il rischio di fare la figura dei “secchioni”!).

Rescissione del contratto
Questo è un classico esempio di come un termine molto particolare ed insolito sia inaspettatamente e incomprensibilmente entrato a far parte del linguaggio comune.
Nove volte su dieci il termine “rescissione” è usato in modo improprio. La “rescissione del contratto” esiste, ma è un istituto del diritto civile talmente particolare e di così rara applicazione che, in tanti anni di professione, non ho mai visto Tizio chiedere a Caio la “rescissione del contratto”. Però nel linguaggio comune si sente in continuazione parlare di rescissione del contratto, e anche molte lettere (scritte evidentemente dai “non addetti ai lavori”) parlano di contratti da rescindere. Vediamo dunque di fare chiarezza.
La rescissione di contratto si può avere solo al ricorrere di condizioni molto particolari e stringenti e solo quando il contratto è stato concluso in una situazione di pericolo (Tizio sta per affogare e chiede a Caio, che gli passa accanto su un motoscafo, di salvarlo, promettendogli in cambio una ricompensa di un milione di euro) o in una situazione di bisogno (Tizio, bisognoso di liquidità, vende il suo castello, del valore di un milione di euro, alla ben più bassa cifra di centomila euro). Si tratta, dunque, di un rimedio davvero peculiare, che si applica in un limitatissimo numero di ipotesi. Nel linguaggio comune, però, il termine “rescissione” è incredibilmente diventato di uso comune e viene utilizzato quasi sempre come sinonimo (ancora una volta errato) di “risoluzione del contratto”. Ma la risoluzione del contratto non ha niente a che vedere con la rescissione del contratto, e non si vede come mai questi due concetti siano tanto confusi nella prassi di tutti i giorni.

Reato penale
Sembra una questione di lana caprina, ma in realtà stiamo parlando di un errore grosso come una casa. Quante volte vi è capitato di leggere, in un articolo di giornale, che Tizio ha commesso un “reato penale”? E quante volte alla televisione avete sentito parlare dell’incremento dei “reati penali”?
Ebbene, sappiate che i reati sono solo penali, se non sono penali non sono reati. Non esistono reati civili e reati penali. Il reato, in quanto tale, è sempre e solo penale. Dire “reato penale” è una tautologia, è come dire due volte la stessa cosa. Scrivere “reato penale” è come scrivere “reato reato”, non serve a nulla, è un’inutile ridondanza.

Interessi usurai
Un grande classico del linguaggio giuridico storpiato. Non si può sentire, davvero.
“Usurai” sono coloro che prestano denaro a tassi elevatissimi, “usurari” sono i tassi di interesse (elevatissimi, appunto). Il termine “usuraio” (al plurale “usurai”) è un sostantivo e indica i soggetti che prestano denaro ad usura, ossia con tassi di interesse illeciti; il termine “usurario” (al plurale “usurari”) è un aggettivo e qualifica gli interessi che sono talmente elevati da essere, appunto, illeciti. Che poi alcuni dizionari oggi presentino i due termini come sostanzialmente equivalenti ciò non vuol dire che, di fatto, i due concetti siano diversi e valgano ad indicare cose diverse.

Intimidazione ad adempiere
Un altro grande classico da fare accapponare la pelle.
L’“intimidazione” è una cosa molto brutta, serve a minacciare una persona nei modi più disparati: quando si parla di “intimidazione” mi viene sempre in mente la famosa “offerta che non si può rifiutare” del celebre film Il Padrino, e la scena con la testa di cavallo mozzata e infilata tra le coperte del letto. L’“intimazione”, e in particolare l’“intimazione ad adempiere”, è, per nostra fortuna, una cosa ben diversa. Con l’“intimazione ad adempiere” si ordina ad una persona di adempiere una determinata obbligazione, invitandola formalmente a fare qualcosa. L’ “intimazione ad adempiere” arriva, ad esempio, con una raccomandata con la quale Tizio chiede a Caio di essere pagato entro quindici giorni. Tra una testa di cavallo mozzata e una raccomandata (scusate il paragone un po’ splatter, ma mi sembra efficace!) c’è una gran bella differenza, la stessa gran bella differenza che c’è tra “intimidazione” e “intimazione”!

Patria potestà
Qui si vince l’Oscar per la categoria “parole giuridiche ormai senza senso”.
Di “patria potestà” si poteva sicuramente parlare fino al 1975. Fino a quella data era corretto usare questo termine. Ma dal 1975 ad oggi sono passati esattamente 40 anni, ed è veramente sconcertante sentire che ancora questo termine viene usato come se fosse concreto ed attuale. Nel 1975 il diritto di famiglia è stato integralmente riformato, e con questa riforma la locuzione “patria potestà” è stata sostituita con quella di “potestà genitoriale”. Non solo. Nel 2013 il nostro diritto di famiglia è stato ulteriormente riformato, e il concetto di “potestà genitoriale” è stato sostituito con il concetto di “responsabilità genitoriale”. Dopo quarant’anni dalla prima riforma del diritto di famiglia e dopo due anni dalla seconda grande riforma del diritto di famiglia si può sperare che sia finalmente giunto il momento di mandare in soffitta il bruttissimo concetto di “patria potestà”?!

Vi aspetto alla prossima!
Francesca Bonaccorsi

 

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Scritto da:

Pubblicato il: 25 febbraio 2015

Argomenti: InQuadriamo il diritto, Quaderni

Visto da: 1171 persone

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Una risposta a: Si dice o non si dice? Il linguaggio del diritto tra regole e strafalcioni

  1. avatar Roberto scrive:

    Gentile Dottoressa
    mettere i puntini nelle ” ì ” è sempre buona cosa
    Cordialmente

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