In occasione del seminario di venerdì “Vite al lavoro. Invenzioni e resistenze dentro la crisi”, abbiamo incontrato la ricercatrice Sandra Burchi che nel suo libro racconta e analizza la storia di dieci donne alle prese con lavori “portatili”
Come ci si organizza, ci si re -inventa e si “resiste” in un mondo sempre più precario dove proliferano sempre di più forme di lavoro autonomo?
Di come il lavoro autonomo, che tende a creare isolamento, riesce a trovare e inventare nuove forme di collaborazione, e anche di sindacato si parlerà, fra l’altro nell’incontro Vite al lavoro. Invenzioni e resistenze dentro la crisi in programma venerdì 20 alle 15.30 all’aula magna del dipartimento di scienze politiche.
Al seminario del ciclo Trasformazioni sociali, welfare e capitalismo in Europa: attori, politiche, istituzioni partecipano Roberto Ciccarelli autore de Il quinto stato; Isabella Zani, traduttrice, attiva in Strade. Sindacato Traduttori; Laura Balbo, sociologa, già ministra per le Pari Opportunità.
Introducono la ricercatrice Sandra Burchi con Riccardo Guidi e Matteo Villa, del dipartimento Scienze Politiche Università di Pisa.
Con Sandra Burchi abbiamo parlato del suo libro, Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico (Franco Angeli Editori, 2014)
Da cosa nasce l’idea, e l’esigenza, di scrivere un libro che parla del lavoro di donne “a” e “da casa”?
Molte donne oggi sono alle prese con lavori ‘portatili’
Mi sono accorta che avevo voglia di fare questa ricerca, quando ho cominciato a rendermi conto che, via flessibilità/precarietà, molte donne oggi sono alle prese con lavori ‘portatili’, spesso svolti in ambienti informali, spesso svolti proprio a casa. Mi è sembrato un segnale da prendere in considerazione.
Sono partita dall’osservazione degli spazi di lavoro e del loro farsi e disfarsi quotidiano.
Mi sono chiesta se oggi la casa trasformata in luogo di lavoro non rappresenti anche un’opportunità, un “sito di resistenza”, per competenze, abilità e idee che il mercato del lavoro, così com’è, non è in grado di valorizzare. La domanda resta aperta, perché le contraddizioni ci sono tutte.
Le donne che racconti e di cui parli hanno alle spalle un alto livello di istruzione, e fanno mestieri anche molto diversi fra loro. Cosa le accomuna?
Le dieci donne protagoniste di questo libro hanno età varie, dai 29 ai 49 anni, e diverse esperienze professionali. In comune hanno appunto l’alta scolarizzazione e il percorso professionale non standard ad alto contenuto cognitivo e imprenditivo. Tutte usano uno spazio di lavoro ricavato nella propria abitazione, all’interno della casa o appena oltre la soglia. Molte di loro hanno cominciato a lavorare negli anni in cui la flessibilità cominciava a imporsi, ma prima che assumesse la forma di precarietà di massa.
Mi ha colpito trovare in queste case “abitate” dal lavoro una pluralità di esperienze e di professionalità. Molte, come è ovvio, sono quelle legate all’uso del computer e delle nuove tecnologie.
Tutte usano il computer. Alcune ne fanno un uso più intensivo e “tecnico”, le altre lo usano per gestire la propria rete di contatti o per commercializzare prodotti e servizi. Ma non è solo intorno al computer che si sviluppano professionalità. Negli spazi di casa è possibile trovare chi organizza un laboratorio artigiano – almeno per cominciare – o, appena oltre la soglia, una coltivazione a chilometro zero.
La loro è una scelta nel senso stretto del termine, o il lavoro da casa si è imposto come unica alternativa possibile?
A casa e da casa oggi si possono fare molte cose e cose molto diverse, anche innovative
Quello che volevo fare è mostrare che a casa e da casa oggi si possono fare molte cose e cose molto diverse, anche innovative. Non si tratta di “celebrare” queste forme di organizzazione, né raccontarle attraverso la polarizzazione della “scelta” e della “necessità”.
Che “stratagemmi” hanno escogitato, se lo hanno fatto, per dividere in qualche modo i tempi del lavoro con quelli della routine che in qualche modo lo stare a casa detta?
Questa è una delle cose su cui mi sono soffermata di più: l’organizzazione. Durante gli incontri ho chiesto di raccontare una giornata-tipo o spingere il discorso verso un modello di routine ideata e perfezionata in maniera consapevole. Non è facile individuare e applicare un’organizzazione stabile nel tempo per chi deve gestire la contraddittoria percezione di avere una grande autonomia e al tempo stesso una notevole dipendenza da variabili che provengono dall’esterno. Essere fuori da un rapporto di lavoro subordinato standard vuol dire anche trovarsi da un’altra parte rispetto a un sistema di regole formali nei rapporti di lavoro.
Un elemento che complica la costruzione di una buona organizzazione è l’abitudine sempre più diffusa di decidere last minute.
Alla fine di questa tua ricerca credi che il lavoro da casa rappresenti in qualche modo un valore aggiunto, uno dei risvolti positivi, pochi mi viene da dire, di un lavoro sempre più precario e fatto anche di frammentazione della committenza?
Le donne sanno che quello che fanno non è pienamente riconosciuto. Ma molte si sentono rappresentate dagli esiti del loro lavoro
Sanno che quello che imparano e fanno non è pienamente ripagato nemmeno in termini di riconoscimento sociale o professionale, che il loro “lavorare a casa” le sottopone a un pregiudizio, a una svalutazione. Ma molte si sentono rappresentate dagli esiti del loro lavoro: lo stress sotterraneo a cui sono sottoposte è “sostenibile” solo in virtù dell’attaccamento ai contenuti del proprio lavoro e anche della possibilità di gestire i tempi, di alternare lavori complicati con lavori più facili, clienti esigenti con altri già fidelizzati. Spesso nei loro racconti emerge ironia: un modo per contenere gli elementi insidiosi e faticosi del proprio vivere.