Un film che indaga la coppia. In modo incisivo, toccando temi universali, come l’incomunicabilità, l’inconciliabilità dei generi e la sofferenza del non riuscire a condividere i pensieri
Ruben Östlund inizia la sua carriera come regista di video sciistici. E questo si vede e si apprezza in Forza maggiore, vincitore del Premio della Giuria nella sezione Un certain regard al 67º Festival di Cannes e candidato ai Golden Globe 2015 e agli European Film Awards.
Il film si incentra su un’idea minimalista ma ben congegnata su cui lavorano magistralmente la sceneggiatura e la fotografia. Una famiglia danese sta trascorrendo qualche giorno sulle Alpi francesi. Un modo per condividere i figli, visto che Tomas è sempre troppo indaffarato al lavoro per godersi la famiglia ed Edda sembra ricercare una maggiore intimità familiare.
Incorniciato da didascalie che richiamano alla memoria Shining e il suo maestro, così come la suspense di alcune riprese e la labirintica e angosciante ritmicità e ripetitività di alcune situazioni, il film indaga, nello spazio ristretto di 5 giorni di vacanza, la coppia. E lo fa in un modo incisivo, toccando temi universali, come l’incomunicabilità, l’inconciliabilità dei generi e la sofferenza del non riuscire ad essere condivisi nel profondo del pensiero.
I quattro stanno pranzando su una terrazza di un ristorante quando una valanga artificiale improvvisamente sembra travolgere tutto e tutti. Edda, abbraccia i figli e urla di terrore, Tomas scappa, con il suo iPhone, senza rispondere nemmeno alle grida dei figli. Basta questo per incrinare una relazione d’amore? Se l’altro ti vede come non ti aveva mai percepito, egoista, individualista,
animalescamente selvaggio, può ignorarlo e far finta di niente? L’escalation della tensione è resa davvero in modo esemplare. Lei non si capacita dell’azione codarda del marito, lui, invece, nega clamorosamente di essere fuggito.
La regia, con una forza davvero straordinaria, scardina la normalità anche nelle immagini. Se inizialmente i 4 personaggi erano braccati dalla macchina da presa, in carrello in steady, che non li molla, progressivamente lo sguardo si fa onnisciente e decisionista: molte le inquadrature in cui la testa rimane fuori dal campo, in un fuori campo proibito e mancante che sbilancia l’armonia anche nella fotografia (oltre che nella coppia).
Così come in un ping-pong di campi e controcampi, mentre la coppia conversa con un’altra al bar, si fa stressante perché va a forzare la tempistica del raccordo di sguardo, rendendo disagiante l’attesa. Anche quando lo sguardo si ferma con il movimento, le immagini si fanno esca della crisi matrimoniale: forzano la tensione, indagano l’inconscio dei protagonisti, ammiccano all’incomunicabilità attraverso angolazioni ardite o a immagini bianche (di neve e di mancanza di comunicazione); fino a rendere espressivo anche un abbraccio, attraverso il rimbombo del cuore che batte, come una allucinazione auditiva, è un solo cuore quello che si sente, che si fa protagonista mentre l’inquadratura dall’alto mostra i due corpi uniti e stretti nell’abbraccio.
Bella la musica, a volte in contrasto netto con la situazione, belli i dialoghi, bravi tutti gli attori. Due amici entrano a contatto con la famiglia e la crisi sembra espandersi all’altra coppia, attraverso conversazioni infinite e meccanismi di colpa/espiazione. Quasi che l’inconciliabilità si facesse virale. Ci sono scene che incredibilmente si fanno esilaranti: nel dramma estremo quello che fanno scattare sono delle risate genuine.
Il regista, da nordico, sembra mettere in discussione la democraticità e parità della relazione uomo/donna: più volte si afferma che l’azione di cura dei figli è esclusiva della madre, che l’uomo – almeno quello delle generazioni anni ’70 – ha come caratteristica distintiva l’individualismo esasperato. Per tutto il film, compresa la fine, la suspense non manca, così come la curiosità e l’attesa così tanto sollecitate dall’insieme nello spettatore.