Ho visto “Sacro Gra” e mi è piaciuto moltissimo. Un documentario inaspettato, con una mano vera, da regista, una fotografia pura e semplice, senza fronzoli se non per qualche sgranatura di luci notturne. Mi è piaciuto il gusto perverso del voyeurismo che la macchina da presa ostenta e ti ritrovi quasi imbarazzato di essere arrivato fin là, nell’intimità – vera e reale – delle giornate altrui, e delle nottate anche. Un gusto di sguardi inusuali, con uso maestrale del fuori campo ostentatorio – soggettive mancate, una due… – che quasi hai voglia di prender il lembo di schermo e tirarlo a sinistra per guardarti anche te quello spettacolo del cupolone e delle villette abbandonate. Mi è piaciuto quel non far mai vedere che la macchina c’era davvero là con loro – se non fosse per il bellissimo sguardo in macchina della piccolina col biberon, ma che ci stava tutto e bene – ed ognuno interpretava magistralmente se stesso, che nessun premio Oscar avrebbe fatto di meglio. Mi è piaciuto quel sentimento dolente taciuto, della solitudine e del dolore, quella situazione di silenzio gridato, delle palme mangiucchiate da dentro. Mi è piaciuto questa Roma che non si vede mai, che si intravede in scritta cubitale e che si sente nell’accento e negli odori di alcool che immagino impregnino le ambulanze su cui si va a fare un giro. Mi è piaciuto il silenzio delle facce, le rughe delle prostitute – quelle vere, donne vecchie e sfatte ma vere – i soliloqui del vecchio padre, intellettuale solitario e alzheimeriano. Mi è piaciuto l’angolo delle inquadrature svettanti da sopra l’auto in corsa, che mi facevano stare davvero sul raccordo. Mi è piaciuto il naturale incepparsi dei dialoghi e l’altrettanto naturale scorrere di altri. Mi è rimasta nel cuore la sequenza sulla neve – silenzio di non musica sommato al silenzio bianco di neve – in cui ho sentito il cuore che mi batteva più forte mentre il silenzio e il bianco riempivano la sala. Mi è piaciuto il film.