Preambolo
Occorre un preambolo a questa recensione.
Sono andata al Pisa Chinese Film Festival presso la stazione Leopolda per assistere alla proiezione di un corto intitolato Acque torbide”di Fei Youming e Liu Shuo. Purtroppo per motivi tecnici non hanno potuto proiettare il film previsto. L’organizzazione ha così deciso di proporre un altro film documentario, Nu Shu. Il linguaggio segreto delle donne cinesi di Yang Yue-Qing, addirittura fuori programmazione ufficiale e devo dire che mai sfortuna fu più produttiva: ho assistito a un bellissimo film…
Il film – in lingua originale, tradotto in inglese e sottotitolato in italiano – racconta la storia di una donna di 86 anni Hang Yang Y, l’unica sopravvissuta nella provincia di Hunan in grado di leggere e scrivere il Nu Shu, “la scrittura segreta delle donne”. Ripercorrendo le sue vicende, attraverso la sua stessa voce narrante, siamo partecipi della sua lotta, in prima fila, per la sopravvivenza di questo alfabeto intimo e riservato solo all’universo femminile, sostenuta dalle sorelle, donne di buon cuore e di grande forza d’animo.
Il Nu shu è la lingua delle donne, la cui conoscenza è proibita agli uomini.
In questa sperduta contea rurale del sud-ovest cinese, le donne sono ancora in balia del volere degli uomini, in una condizione a dir poco di serve sfruttate, vivono in un ambiente maschilista, improntato sulla sottomissione femminile e sulla violenza che si muove alla donna in quanto oggetto di proprietà.
La vecchia donna – attraverso una bellissima fotografia che mostra tutta la sua umanità di bellezza e di rughe – si commuove quando racconta della sua vita e di quella sorta di sorellanza tra i membri femminili che oltrepassa le tradizionali relazioni familiari. Le “sorelle” non sono di sangue, ma di cuore; con le sorelle, attraverso questo alfabeto segreto, si può condividere la fatica del duro lavoro – campi e terra da dissodare – la sofferenza del disprezzo e della padronanza del maschio di famiglia, il dolore dell’essere strappate dalla propria famiglia di origine per essere “donate in dote” a quella del marito.
Le donne del film sono tante, raccontano, attraverso bocche sdentate, che è: “Meglio avere un cane che una figlia. Il cane fa la guardia alla casa, la figlia l’abbandona”.
Ma le donne, da brave resistenti quali sono di natura, escogitano un sistema per “capirsi e comunicare”, coloro che condividono il Nu Shu sono unite da una connessione intangibile e sono devote le une alle altre.
La sofferenza, ma anche il desiderio di indipendenza, e le particolari caratteristiche della comunità sono i temi esplorati da questo linguaggio segreto, nato dalla ribellione contro il maschilismo.
La regista, attraverso un bel montaggio in cui si alternano filmati “locali” e le immagini di interviste alla protagonista – ad un certo punto chiede a Hang Yang Yi come mai questi canti Nu Shu – in effetti sono nenie tristissime che rammentano i fado portoghesi – vengono cantati proprio al terzo giorno della cerimonia matrimoniale, “Perché piangeva il terzo giorno di matrimonio?” Lei risponde – ed è una delle scene più commoventi del film – “Sposare uno che non conosci non fa piangere?”
In effetti pensiamo proprio di sì.
Alcune canzoni nu shu erano dedicate alla fasciatura dei piedi. Sullo schermo scorrono le immagini oscene delle deturpazioni fisiche a cui erano soggette le donne sin dai primi giorni di vita. Una di queste, ribellatasi per scappare durante l’occupazione giapponese, ha sfasciato i piedi – primissimi piani di carne rattrappita, là dove doveva esserci la pianta del piede c’è un ammasso di falangi deformi e storte dalla tortura perpetua – ed è riuscita a correre, anche se male. Questa donna ci racconta, guardandoci proprio negli occhi, che in quel momento in cui ha gettato le fasce si è sentita libera, viva, rinata.
Commovente, istruttivo e umile, il film ci immergerà nel cuore di questa sub-cultura e ci mostrerà il coraggio e la forza necessari per resistere all’oppressione.
“Noi ricamiamo migliaia di abiti, il fratellino legge migliaia di libri”: questa una strofa tradotta da un canto nu shu, le donne si ribellano al maschilismo, anche culturale, e inventano un modo magico di “scrivere” sui ricami delle coperte e delle tovaglie. Un’esperta di questo linguaggio, docente universitaria, ci racconta che il nu shu è un linguaggio sillabico e non pittografico come il cinese, ha solo 700 caratteri anziché 200.000, dunque è anche più semplice, più efficiente e moderno. Tang Bahozen, ancora viva tra le sorelle del nu shu, lo ha insegnato ai ricercatori universitari e ha permesso che venisse infine riconosciuto come vera lingua scritta. Un riconoscimento importantissimo che va a rendere giustizia a queste donne forti come leonesse che si sono inventate una nuova lingua per potersi “liberare” almeno un po’.
grazie yuri, meraviglioso.
Per i curiosi, alcune parti del documentario sono montate in questo video: http://www.youtube.com/watch?v=hqRcD8Cpucg