Due film in uno, da un lato il privato, intimo sentimento di amore filiale, dall’altro il politico, con un’apparente ostentazione corale di temi affatto privati
Anche questa volta Moretti sigla con il suo stile inconfondibile un film complesso e sfaccettato. Mia madre è un ossimoro in movimento, due film in uno: da un lato il privato, intimo sentimento di amore filiale, dall’altro il politico, con un’apparente ostentazione corale di temi affatto privati.
Margherita – stesso nome per il personaggio della Buy – è la regista del film nel film. Sta girando una pellicola impegnata, sulla lotta di operai contro la dirigenza della fabbrica che ha deciso di vendere all’America per sopperire alla crisi economica.
L’apertura del nostro film coincide con una ripresa di Margherita, una manifestazione operaia che finisce a manganellate con la polizia. Moretti, in sottofondo, attraverso le riprese strampalate che Margherita sta cercando di girare, riflette sulla grave situazione dell’Italia, ma lo fa in sordina, delegando alla scatola cinese della narrazione, e lo fa in uno stile che non è il suo.
Margherita, alter-ego del regista, non è Nanni Moretti, Margherita è insicura, gira un film brutto, con una star che sembra recitare in una commedia comica – geniale John Turturro in questa parte bagnata da divismo quasi patetico – quasi a dichiarare che nessun film rende bene ciò che sta succedendo nelle industrie italiane oggi, quasi ad urlare al mondo che nessuna pellicola potrà mai risolvere questa situazione politica.
E il privato intasa, emozionalmente, la comunicazione politica e sociale dei due registi, Moretti e Margherita: è l’imminente morte della madre che va a riempire i buchi lasciati dai pezzi di film. È questa la parte più intima e vera del film: il dolore centellinato dei due figli, lui che con calore e discrezione addirittura si licenzia per accompagnare la madre verso le ultime ore, per dedicarsi al culto della morte e del lutto – belle le scene in cui il figlio porta il cibo alla madre, con cura, con amore – e lei che, invece, rifiuta la realtà, non accetta la fine, e fa finta che non stia accadendo niente.
Il montaggio gioca con il tempo narrativo, incrocia il tempo presente al tempo futuro, i mobili della casa materna, osservati nei dettagli con leggeri e lenti piani sequenza, in altre scene si compattano in scatole da trasloco, in un’altalena di piani che confondono la realtà, volutamente e con malinconia. Il film imprime un senso di soffocato dolore, di disagio sottile, amplificato dal personaggio della madre, interpretata magistralmente da Giulia Lazzarini, che dà una profondità particolare al personaggio, persa in un fluttuare tra le demenza senile e la stanchezza della malattia. Le scene in cui la madre non sa più tenersi in piedi, barcollando sulle proprie gambe, sono commoventi e vanno a tirar fuori un dolore generale dal film, amalgamando anche la mancata risoluzione dolorosa del film nel film. La perdita di una madre è un dolore troppo grande, può farci distogliere da tutto, anche dalla denuncia politica e sociale.
Moretti, però, riesce a fare entrambi, proprio giocando con giochi di echi e di risonanze, di silenzi e assenze. E lo fa con un film che rende omaggio al cinema, in generale.