Dovrete essere preparati psicologicamente se sceglierete la visione di questo film. Super osannato – candidato a 9 Oscar, vincitore di un Golden Globe (miglior film drammatico) e di due Bafta (miglior film drammatico e migliore attore), applaudito ai Festival di New York, Toronto e Roma – il film è tratto dal romanzo autobiografico di Solomon Northup, pubblicato nel 1853, dopo aver recuperato la condizione di uomo libero.
Solomon, interpretato dall’ottimo Chiwetel Ejiofor, è un violinista dotato, che vive con la moglie e i due figli in una condizione agiata a Saratoga, New York. Due finti artisti circensi – che sembrano una parodia del Gatto e la Volpe – lo ingannano con la promessa di un ingaggio musicale in uno spettacolo per poi venderlo, dopo averlo drogato, come schiavo in Louisiana. Ecco che il protagonista entra come Josef K. in un incubo che durerà appunto dodici anni.
Il film è un lungo flashback per buona parte della visione e, proprio dal confronto tra le due vite, una piena di amore e appagamento, l’altra di disperazione e violenza, lo stridore dell’ingiustizia si fa più forte. Quasi, ci viene da dire, fosse peggio ritrovarsi schiavo “per errore” che esserlo dalla nascita.
Che riflessione allora fare sulla schiavitù? Tra questo scegliere di sopravvivere per sperare di vivere, o sperare di morire per smettere di soffrire – come succede alla ragazza che simboleggia la tortura sadica che le donne schiave dovevano subire dai loro padroni bianchi – che cosa è meglio?
Siamo nel 1841, alla vigilia della guerra civile. I negrieri del Sud hanno bisogno di manodopera per la raccolta del cotone. Nei salotti la merce viene mostrata, nuda e a occhi bassi, viene esposto il prezzo, i denti in mostra per verificarne lo stato di salute. Non esiste misericordia, umanità, solo il denaro conta. Una madre viene strappata ai suoi due figli, venduti come pezzi singoli – le grida e il pianto straziante rimane nelle orecchie a lungo – con lei anche Solomon che oltre a essere robusto, sa suonare e intrattenere. Ma forse è proprio quella la sua disgrazia, il fatto di essere un uomo colto, di valore, di avere esperienza e intelligenza, cose che sembrano provocare ancor più sadismo e violenza nei sovrintendenti addetti al controllo dei negri. Il secondo padrone bianco a cui Solomon sarà venduto, Edwin Epps, è un insieme di bruttezza umana della peggiore specie. Alcolista, schizzato e umorale, riversa sui suoi schiavi la violenza più sordida e brutale. Avvezzo alle parti terribili e drammatiche – come dimenticarlo in Hunger e in Shame – Fassbender dà davvero il suo massimo in questa parte, tanto da indurci quasi a pensare che sia la “sua parte”. Il carnefice e la vittima sacrificale: Solomon avrà pochi momenti in cui proverà piccoli tentativi di ribellione, timidi rifiuti ma senza forza vera. Lontano dalla esuberanza spettacolare di Django. È un vinto, in partenza, solo perché prima era un uomo libero. Molta più forza e dignità esprimono le donne del film: quella che ostenta il suo dolore per i figli strappati e la ragazza martoriata-stuprata-derisa-deturpata (anche dalla moglie gelosa) che capisce che la morte è nulla in confronto a quell’inferno di carne e paura.
Sarà Samuel Bass, canadese e fervente oppositore della schiavitù – breve apparizione di Brad Pitt – a dare una svolta alla vita di Solomon che non ci crederà fino in fondo. Questo è l’unico momento in cui si discute sull’abominevole concetto di schiavitù. Saranno i gospel tristissimi a fare spesso da colonna sonora, quelli che si cantano mentre si raccoglie il cotone o mentre si onora il funerale di chi cade per raccoglierlo.
La fotografia è splendida, le immagini esaltate da lunghi piani sequenza che evidenziano uno sfondo vastissimo in cui i personaggi – quasi sempre spezzettati nei dettagli e nei primissimi piani – si perdono nel loro dramma. Ma è la stessa fotografia con una forza esplosiva che esalta la violenza. Molte le scene dove McQueen ci tortura con qualche minuto di troppo; ostentando mimiche di dolore, occhi che chiedono pietà, come quelli di animali al macello, grida strazianti di carne aperta a suon di frustate che sibilano, stupri famelici su donne che sono solo carne. Un po’ troppa questa ostentazione ci vien da dire. Fa male dentro e nello stomaco. Sicuro che il tentativo fosse quello di incastrarci nella miseria della storia americana, per farcela assaporare come contraddizione.
“occhi che chiedono pietà, come quelli di animali al macello”
eh? secondo te gli animali in un macello sanno quello che gli spetta? un bovino è in grado di chiedere pietà?
“.Un po’ troppa questa ostentazione ci vien da dire. Fa male dentro e nello stomaco.” ma in effetti per me è giusta, la ostentazione. Se non ci faceva male significa che il film era fatto male o che siamo stronzi dentro. Doveva fare male per farci scuotere, per farci riflettere – in particolare su quanto schiavismo è ancora vivo. La scena tra le più forti è quando con il cappio al collo il soggetto rimane solo per ore, in agonia totale, quasi (!) completamente ignorato dai compagni…. Fa male nello stomaco? Beh. cazzo, è così che ci si sente, anche di molto peggio!