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DiSbieqo Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek

foto-allacciate-le-cinture

Allacciate-le-cinture-cover-locandinaVa be’, a Özpetek  posso perdonare anche il tronista. E vi spiegherò il perché. Di fatto credo che il personaggio di Antonio nessuno meglio di Francesco Arca potesse interpretarlo. Non è l’attore a essere pessimo, lo è il personaggio, tant’è vero che ci viene da pensare ad un brutto esempio di uomini etero per le pellicole del nostro turco. Francesco Arca interpreta Francesco Arca: niente di più. Solo una cosa salva la sua scelta:  – dicendola forse rischio il linciaggio ma… – quella vaga aria pasoliniana che il viso scolpito di Arca  – ragazzaccio di periferia bastardo dentro – esala può giustificare Özpetek.
Non è il suo film “più maturo e consapevole”, come lui sostiene, ma, di sicuro, è un film suo. Lo si riconosce, da subito. Dalla fotografia, con quell’estro tutto particolare, dalla sceneggiatura – penna ormai consolidata e sapiente quella di Gianni Romoli – dai colori e dalle grida. Lo si riconosce in quel suo stile inconfondibile che mi fa perdonare il tronista, l’attrice troppo “patinata” e anche l’assurdità della storia.

Andiamo per ordine. L’inizio è bellissimo. Un lungo piano sequenza, supportato da un ottimo ralenti  – poetico e delicato – si apre sul campo medio di una pioggia battente che scroscia. L’altezza, però, non è quella di un umano, proprio no, è l’altezza delle gambe – magre, grasse, sode, nude – su scarpe diverse. Sono le gocce di pioggia che ballano sulle note di una colonna sonora alla Özpetek – di quella che c’è, che si fa sentire anche – e il carrello continua, si muove, leggero, si fa panoramica, si fa steady, leggero, fresco, quasi ballato. E l’altezza rimane quella dei piedi, di quel fuori campo che si ostenta da solo, che ci lascia prigionieri della nostra voglia di scrutare-guardare-capire-conoscere. Gambe corrono, in mezzo a questa pioggia non invernale, improvvisa. Ecco che ci si ferma. La macchina da presa – finalmente! – ci concede qualche centimetro in più e si alza. Un quadro di fronte: una pensilina di autobus, che si muove, in fermento. La gente corre, entra, spinge si sistema, in cerca di un po’ di requie dalla pioggia. La macchina da presa ferma la sua lenta salita. Altezza uomo. Ecco li conosciamo, ehi sono loro i  personaggi! E, da subito, capiamo che lui non ci piacerà mai. Non per un problema di bellezza – credo che questo tipo di uomo vada molto di moda – ma per come si presenta subito: aggressivo, violento, ignorante, cafone, xenofobo, fascistoide. Se lo scopo di Özpetek era quello di essere accusato di machismo gretto e scontato – ostentato oserei dire – ci è riuscito. Lo sguardo, troppo a lungo distanziato dai personaggi, si prende il lusso di distanziarsi – forse anche un po’ troppo.
Famiglia, amicizia – Filippo Scicchitano nell’amico gay della protagonista, vero e sincero – i temi ci son tutti, come sempre.

L’amore può davvero salvarci dal disprezzo?
Ci si può innamorare perdutamente instancabilmente terribilmente della persona che mai vorremmo come amica?
Sembrerebbe di sì.

Antonio e Elena si amano. I loro corpi si intrecciano, in immagini che lisciano la pelle, sottolineano – primissimi piani e  dettagli – tatuaggi sulla pelle calda d’amore e di sesso. La fotografia rende nobile anche la mala interpretazione, anche il non saper dire, se non con occhi e pelle.
Poi – come sempre – arriva il dramma. Dopo la famiglia, l’amicizia, l’amore, la disfunzionalità ricorrente.
Arriva e si fa cancro. Per farci soffrire. Dopo che Elena Sofia Ricci – strepitosa in queste sue parti Özpetekiane – ci ha fatto ridere assieme alla sorella – Carla Signoris si conferma all’altezza.
Bellissima l’inquadratura del volto di  Kasia Smutniak che passa dalla impassibilità al dolore – appena saputo del cancro, appunto – alle lacrime. E qui, sembrerebbe almeno, lo sguardo si fa partecipe e non si discosta dal personaggio. La malattia vince. Salva un matrimonio malato. Finito (?). La malattia serve. Bellissimi i corridoi dell’ospedale, immagini ossessive del rito della guarigione e della morte.
Manca qualcosa però. Una conciliazione tra tutti questi strati. La bellezza, la bruttezza, il dramma, la risata.

Egle – brava Paola Minaccioni – è la compagna di stanza di Elena. La stanza del dolore, della malattia, dell’improvviso interrompersi della gioventù che sembra tanto tormentare Özpetek.
Il film, in quel suo puzzle di raccordi di sguardo – un lungo flash forward che ci riporta all’inizio e alla fine assieme – si chiude con quel vago sapore di incertezza e malinconia che da Özpetek possiamo anche aspettarcelo.
Andate a vederlo – Lecce fa da sfondo con i suoi bellissimi scorci – perché al cinema si vedono cose molto peggiori. E perché è comunque bello.  La magia c’è comunque (se non altro per la bellissima voce di Rino Gaetano).

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Pubblicato il: 8 marzo 2014

Argomenti: DiSbieqo, Quaderni

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