Grand Budapest Hotel è uno spumeggiante calderone di idee, è un cinema che si evolve da dentro se stesso, attraversando i generi: comedy-drama(da commedia a dramma più volte), azione, noir, comico (le comiche quelle belle). Presentato alla sessantaquattresima Berlinale è stato osannato e amato da tutta la critica, e presentato come un capolavoro.
Wes Anderson si ispira ad un romanzo dell’austriaco Stefan Zweig, scrittore epurato dal fuoco nazista. L’inizio del film sembra proprio un omaggio a lui (l’Autore sconosciuto): una ragazzina depone una chiave di hotel sul busto funebre dell’Autore (siamo in un cimitero). Si legge un capitolo del suo romanzo: un viaggio nel 1968 nel Grand Budapest Hotel. Ecco che un lungo flash-back ci porta ad un intreccio di vari livelli narrativi, un gioco di scatole cinesi che si incastrano: l’autore anziano racconta del suo viaggio nel famigerato hotel, ed ecco il secondo livello, parte la lunga storia dalla bocca di Zero (Murray Abraham).
Il film è davvero un gioiellino di perfezioni, la fotografia è bellissima, il montaggio perfetto (il ritmo incalzante non ci lascia mai), la scenografia e i costumi fantastici – Milena Canonero dà, come sempre, il suo meglio in questi colori sgargianti che affascinano non poco.
Il film sembra voler riflettere sul cinema stesso. Le immagini variano nel corso della visione, da classiche a meno classiche, dal colore al bianco/nero, citando, ma non troppo, i grandi autori.
Il cast stellare – citazione dello star system? – vanta interpretazioni perfette: Ralph Fiennes è esemplare nella parte da protagonista. Lui è Monsieur Gustave, il raffinato concierge che lavora in un paesino alpino dell’immaginaria Repubblica di Zubrowka. Impeccabile ed elegante, conforta le vecchie signore altolocate che soggiornano all’Hotel diventando loro amante. Il film parla di lui e della sua amicizia con Zero Moustafa il lobby-boy immigrato che rappresenta “lo straniero” (bravissimo Tony Revolori, sembra scelto proprio per i suoi tratti esotici).
Il ragazzo si innalza a simbolo di vittima del razzismo, quello generale, a-temporale, in un periodo storico che copre cinquant’anni, a cavallo tra le guerre, con una focalizzazione maggiore sugli anni ’30, dove i simboli delle SS diventano ghirigori rosa shocking come festoni di carnevale, attraverso la lente distorta del surrealismo, con eleganza e maestria. Il film parla di questa amicizia e di molto altro. Impossibile, infatti, raccontarne la trama, l’intreccio si dipana e si sviscera in una miriade di rocambolesche avventure (che ricordano Chaplin e Ridolini), ognuna perfettamente inserita nel puzzle narrativo che Anderson costruisce.
Il film parla anche di un quadro, “Ragazzo con mela” ereditato da Gustave e oggetto di contesa per un’eredità da parte di Madame D. (la bellissima Tilda Swinton in queste parti da trasformista che la relegano in un limbo temporale senza età). Il film parla soprattutto dell’Hotel – un Overlook in rosa – testimone che varia col corso del tempo, colori e ospiti, dall’esuberante maestosità degli anni ’30 al modesto e sbiadito aspetto negli anni ’70.
Alcune scene sono bellissime: Zero e Agata cadono dalla finestra e si ritrovano immersi nelle scatoline rosa dei sublimi dolci della pasticceria Mendl’s; le scene in ascensore sono veri e propri quadri costruiti sull’equilibrio e sulla complementarietà dei colori; le discese grottesche sulla neve (con slittino e sci) sembrano un prontuario di giochi olimpici (e comici).
Il film è un immaginifico viaggio tra la fantasia della favola velata di scuro (lo scuro della violenza-avidità-razzismo-nazismo) e un resoconto magistrale dell’evoluzione dell’arte cinematografica, fatta con visionaria bravura.
The Grand Budapest Hotel (USA, 2014, di Wes Anderson. Con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jeff Goldblum, Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Saoirse Ronan, Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tilda Swinton, Tom Wilkinson e Owen Wilson.