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Serge Latouche, il cibo giusto e l’abbondanza frugale

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Cibo buono, pulito e giusto. Ruota intorno a tre semplici aggettivi l’intervento di Serge Latouche che lo scorso mercoledì ha partecipato insieme al neo presidente di Slow Food Nino Pascale al confronto “Il cibo giusto” alla Leopolda. Tre aggettivi che rendono il senso di una società che necessita di ridurre i consumi, ma partire dai proprio bisogni, se vuole a sua volta essere sì giusta ma anche se desidera sopravvivere a se stessa.

Laddove decrescita felice è uno slogan di facile impatto, ma anche altrettanto facilmente fraintendibile, ciò che viene messo in discussione e accusato è un sistema sociale ed economico basato su una crescita finalizzata a se stessa, che punta sull’illimitatezza dei consumi e quindi mira a creare bisogni, basata in modo irrealistico su risorse illimitate e possibilità illimitata di produrre inquinamento. A questa Latoche contrappone un modello in cui ad essere soddisfatti siano i bisogni reali.

Il cibo è il primo esempio e il primo motore di una “rivoluzione” che compiendosi porterebbe con sé non solo un’alimentazione sana e conseguentemente una salute migliore, ma anche un minor impatto sull’ambiente e condizioni di lavoro più dignitose. Senza contare un sistema di produzione rispettoso nei confronti di animali e piante.

A un pubblico folto e in gran parte già sensibile ai tempi proposti, Latoche snocciola i danni prodotti da un’agricoltura produttivistica: pesticidi, impoverimento della bio-diversità, inquinamento delle falde acquifere attraverso l’uso di pesticidi e concimi chimici, privatizzazione della natura (attraverso l’introduzione dell’OGM ma anche tramite l’obbligo di acquisto dei semi).

Ad alimentare l’agricoltura produttivista, e a sua volta ad essere alimentata da essa, “un’obsolescenza alimentare” capace di produrre “mostri”.
“Oggi non conosciamo più chi produce il cibo e come lo produce” dice Latouche, e questo determina da un lato la “necessita di date di scadenza” e dall’altro, strettamente collegata ai prezzi più o meno bassi dei prodotti industriali, produce una perdita di valore che si traduce in grandi sprechi: “Il 20, 30% dei prodotti dei supermercati viene gettato, e una simile percentuale dei cibi nei nostri frigoriferi ha la stessa sorte”.
Quantità che tradotta in moneta, spiega Nino Pascali, “è pari a 8,7 miliardi di cibo”.

Ma questo tipo di produzione agricola produce anche quella che Latouche definisce “una catastrofe simmetrica: 600 milioni di obesi e 845 milioni di affamati”.

Le strade dunque da seguire per un’inversione di tendenza e per raggiungere quella frugalità che Latouche traduce “nell’arte di sapersi limitare” sono diverse ma fra di loro interconnesse. Una rilocalizzazione della produzione e del consumo e il ritorno a un’agricoltura contadina (dove non si produce più per la grande distribuzione e dunque con quelle grandi quantità che nefasti impatti hanno sull’ambiente).

Passaggi a cui Nino Pascale aggiunge un’educazione al consumo “perché l’obbiettivo è quello di un cibo giusto buono, pulito e giusto per tutti, e non un modello per pochi”. Ma per far sì che questo cibo esca dalle nicchie di certe distribuzioni (GAS, botteghe solidali, mercati contadini) a cambiare devono essere le politiche nazionali ed europee. Spiega Pascali: “L’agricoltura di piccola scala stenta a decollare non solo per una questione di mercato. Il modello della nostra società è quello della grande distribuzione, a partire dagli adempimenti burocratici fino ad arrivare alla PAC che prevede benefici per i proprietari di terreni indipendentemente dal loro uso e in maniera proporzionale alle dimensioni”.

Stesso discorso per l’innovazione tecnologica: “C’è grande necessità di ricerca e di innovazione anche nell’agricoltura di piccola scala perseguita con criteri etici, ma spesso la ricerca tecnologica è destinata alla grande industria e all’economia di scala”.

Se l’educazione e la cultura rispetto a come e cosa consumiamo è indubbiamente un tassello del ripensamento della produzione agricola e del consumo, non solo alimentare, vero anche è che nonostante esperienze come i GAS  si siano consolidate nel tempo e si siano allargate nel numero, queste restano pur sempre delle nicchie. Dove il costo del cibo è maggiore rispetto alla grande distribuzione: ed è inevitabilmente e giustamente più alto visto che alla base c’è anche una concezione di lavoro che deve essere retribuito secondo il suo valore e su cui pesa forse sì un metodo di produzione più onerosa ma che ha certamente minor costo sociale a medio lungo termine.

Un costo a cui si lega la capacità di acquisto delle famiglie che tende a ridursi ormai costantemente e che non può essere risolta semplicisticamente con l’assunto “è una questione di scelta”. Perché se, come ha spiegato Latouche “la spesa media degli per il cibo degli italiani dal dopo guerra ad oggi è passata dal 40 al 19%, mentre è progressivamente aumentata quella per la tecnologia”, non si può allora nemmeno non tenere in considerazione il numero progressivamente crescente di famiglie che si rivolgono alle centrali di distribuzione del cibo per meno abbienti.

Se la questione centrale è il cibo, sano, pulito e giusto, inteso come diritto delle persone (un diritto che con sé implica il diritto alla salute e quindi alla sostenibilità e alla difesa ambientale), forse allora ha senso chiedersi se sia arrivato il momento di recuperare le categorie proprie di un’ideologia che metta in discussione il prevalere dell’interesse economico di pochi sulla salute e la dignità di molti.

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Pubblicato il: 25 maggio 2014

Argomenti: Ambiente, Cultura, Pisa, Politica

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