La serie si fonda sulla più banale delle premesse: le vicissitudini esistenziali di tre giovani amici.
Del tutto originale, invece, l’approccio con cui il creatore Michael Lannan dipana le esperienze dei tre. I dialoghi sono interessanti, ma non irrealistici; le avventure sono curiose, ma non impossibili; gli atteggiamenti, le debolezze, le manie, le paranoie: tutto risulta credibile e ben raccontato.
Patrick ha 29 anni e nonostante si guadagni il pane facendo il level designer (fancy way per dire che progetta videogiochi), abbia le cosce grosse e sia affetto da miopia, è convinto di non aver mai avuto una storia più lunga di 5 mesi a causa della raffinatezza dei suoi gusti sentimentali.
Poi c’è Dom, esteticamente assimilabile al poliziotto dei Village People, che due settimane prima di compiere 40 anni si rende conto che non basta avere 40 anni e fare ancora un lavoro che implica l’esposizione del proprio nome su una targhetta appuntata alla polo per sentirsi un fallito, ma che per fallire davvero bisogna almeno provare ad aprire un proprio ristorante senza avere un soldo in tasca.
Infine, c’è Agustín, l’artista (?) che a diciassette anni ha fatto un collage di un unicorno composto da foto i cui soggetti spaziano dagli uomini nudi ai falli, e da allora tribola e si tormenta per partorire un’altra opera di eguale intensità e potenza artistica.
Oltre a essere tutti giovani uomini residenti a San Francisco (la città, meravigliosamente descritta dalla fotografia di Reed Morano, è il quarto protagonista) i tre sono anche omosessuali.
Proprio l’approccio alla tematica sottolinea con evidenza quanto il prodotto HBO si voglia porre su un piano di raffinatezza e realismo che non lascia spazio a cliché e a personaggi stucchevoli, ma voglia raccontare la storia di tre trentenni, guarda caso, gay.
Nessun colpo di scena, nessuna svolta all’orizzonte. I tre sono consapevoli della loro omosessualità, l’hanno comunicato ai famigliari, vivono nella quanto mai gay friendly San Francisco e non subiscono alcun tipo di discriminazione o violenza. Sono post-gay, il che permette al creatore di raccontare storie e problemi universali (ambizione frustrata, blocco sentimentale) senza sentirsi necessariamente ghettizzato nella varietà di tematiche tipiche dello show gay.
Divertente il modo in cui vengono affrontati i presunti topos dell’omosessualità. Il personaggio secondario logorroico e sarcastico, generalmente interpretato dalla quota gay dello show, in questo caso è impersonato dall’unica donna eterosessuale della serie. Oppure il cruising, l’incontro sessuale tra sconosciuti in un parco: non risulta né erotico né eccitante, ma solo imbarazzante, buffo, ridicolo, volto ad annichilire con scherno la scena banale che tutti si aspettavano e a chiarire intenzioni e tono di uno show che rifiuta di farsi definire dall’orientamento sessuale dei suoi protagonisti.
Le serie tv (in generale, per definizione) non sono costrette nella sintesi del gesto: Looking non racconta una svolta nella vita dei suoi protagonisti, ma ne segue la crescita, l’evoluzione, la scoperta della loro identità. They’re looking for, appunto. Ciò non esclude che la narrazione presenti intensità drammaturgica, che si avvii verso un evento cruciale. Assistere al disgelo sentimentale di Patrick, all’affannarsi di Dom dietro al suo sogno, al tormentarsi di Agustín alla ricerca dell’autoaffermazione, è interessante e capace di intrattenere.
Il ritmo è un po’ lento, certo, ma lo stile della narrazione, la sensibilità dell’approccio verso i sentimenti più profondi dei protagonisti e il realismo misto a delicatezza con cui si affrontano temi strettamente sessuali (ad esempio, Patrick a letto è Ross o Rachel?) rende la serie un prodotto sicuramente originale.