Melbourne è un bell’esordio per il giovane regista Nima Javidi. Nutrito della lezione di Ashgar Farhadi – meritevole di aver fatto conoscere il bel cinema iraniano e anche un po’ l’Iran – ne vuole ricalcare in parte il gusto, rievocandolo nello spazio ristretto delle riprese, ma rimane su un livello diverso di esuberanza. Melbourne è un tentativo di drammatizzare un normale momento di serenità, è una prova di bravura attoriale che ci piace, è una scrittura ferrea e ben fatta, ma è anche un film che lascia un disagio così denso da sembrare imbarazzante. Siamo noi – proprio noi, gli spettatori dall’altra parte dello schermo – che più subiamo, per un’ora e mezza, una adrenalinica sensazione d’ansia.
Amir e Sara sono due giovani universitari (lui è già ingegnere) che stanno per lasciare il loro paese per Melbourne, al primo posto per qualità della vita – spesso si fa riferimento ad un desiderio-tabu di fuga dall’Iran, un tentativo di cambiare, rivoluzionare uno status quo, che sia quello della famiglia patriarcale dove il maschio ordina alla sorella di prendergli le sigarette e dove lei, donna, non può avere libertà di fumare proprio in quanto donna? – ma questa destinazione rimane una spina nel fianco, un fuori campo ideale, una meta che forse sarà persa per sempre.
Per la prima mezz’ora si fanno i bagagli, concitazione di partenza, di gioventù e di amore – baci e selfies sorridenti e che sorriso la bella e bravissima Negar Javaherian. E lo spazio filmico è perfettamente funzionante, un teatro di sguardi, raccordi e rimbalzi perfetti, un delizioso meccanismo di entrata e uscita “di scena” popolato da molteplici personaggi di passaggio e scandito dai suoni incalzanti e fastidiosi (ci rendiamo conto anche noi che siamo tutti schiavi della tecnologia) dei cellulari, citofoni, telefoni. Non che ci sia spazio per acrobazie della macchina da presa: nella pacata posa del teatrino almeno lo sguardo si fa rilassante, in contrasto al sonoro che disturba e imbarazza. Ma scatta un dramma, basato su pochi elementi, pochissimi, anzi troppo pochi.
Il dramma si consuma attraverso le facce che si trasformano in un mimo che drammatizza tutte le espressioni del viso. E l’ansia ci invade. Ci fa sentire impotenti. Ci fa sentire male. Ci fa sentire il dolore e il gusto della tragedia e il dipanarsi snodato del trauma mal gestito. Amir, capofamiglia si scompone e si divide tra codardia velata e passività caustica. Sara, vittima del senso di colpa e del tentativo di legalizzare la situazione, si affida a lui senza fiatare, senza davvero farsi testa pensante e decisionale.
E noi che facciamo? Rimaniamo impassibilmente storditi, rimbalzati nel dramma claustrofobico della tragedia appena consumata che si distende e si dilata. Fino alla scena finale – bellissima – dello scoppio di pianto in taxi, quando ormai tutto è stato deciso e compiuto e non c’è più tempo di valutare gli errori, e lo stordimento va a sciogliersi nell’inquadratura (l’ultima) al nero dove il pianto si fa unico protagonista.