Il Teatro secondo Sara & Hengel
Sul tavolo di casa da mio papà c’è una scatolina arancione metallica un po’ malandata. L’ha trovata zappando la terra, nell’orto e l’ha tenuta perché era di suo padre, mio nonno, grande amante delle caramelle Mental. Sopra, oltre alla scritta, c’è disegnata la testa di una donna nera col collo lungo ed un fiore che esce dalla bocca. Sarà perché era liquirizia che c’è la donna nera? Forse sì, anche le liquirizie Tabù pescavano in quell’immaginario. Ricordate le Tabù? Non erano molto da bambini però io amavo la liquirizia (o regolissia come dicono gli anziani delle mie parti) e le mangiavo volentieri. E poi c’era quella pubblicità! Voi la ricordate? La ricordi, Hengel?
“Eccome no! Era quella col negro…”
“Eh sì, Hengel, quella col nero... Ma era un cartone animato, ricordi? Non aveva una faccia vera, lui era nero come lo sfondo e si vedevano solo gli occhi, i guanti bianchi, il papillon rosso e le labbrone bianche. E poi la canzone, era orecchiabile, divertente!”. Mi piaceva.
Cari lettori del Grand-Quignol! non pensiate che siamo razzisti, il fatto è che non amiamo le mezze misure, i fronzoli… e tantomeno il “Politicamente Corretto”. A volte giocare con le violenze che gli uomini creano con la lingua, come quella del nominare un essere umano con disprezzo in base al colore della pelle, può essere un modo per esorcizzare, no?
Che poi si scopre che nella lingua italiana il termine negro (che deriva dal latino niger/nigrum) significa semplicemente nero e non era affatto un termine dispregiativo. Pare anche che al solito abbiamo voluto uniformarci all’inglese e allora da lì, dopo gli anni ’70, anche noi italiani abbiamo iniziato ad avere paura della “parola con la N” e si è iniziato ad usarne altre come “persona di colore”, “colorato”, “afroamericano”, ecc.
Ma soprattutto, cari amici, che cavolo c’entreranno le liquirizie, i negri ed il razzismo col teatro? Ehehehe, c’è sempre un nesso!
Eh, sì, perché per la pubblicità delle Tabù, quella che tanto ci divertiva, pare che i simpatici creativi si siano ispirati alle performance di Al Jolson, cantante jazz, attore, musicista e compositore degli anni ‘20. Ma che cosa faceva di così speciale Al? Faceva il negro. Sì, faceva finta di essere un afroamericano. Sul palco, ovviamente. Dovete sapere che quando ai neri non era permesso fare spettacolo e di esibirsi in teatro davanti ad un pubblico bianco (diciamo tra metà dell’800 e i primi del ‘900) nasce in America la figura del Blackface. Di sicuro ciascuno di voi in questo momento ha avuto almeno un flash, un’immagine nella mente di uno di questi Blackface. Ma forse questo video del caro Al può darvi un’idea più precisa:
Quindi il Blackface era una maschera (un Arlecchino, un Pulcinella, un Pantalone tanto per capirci), un vero e proprio stile di intrattenimento completo che univa l’idea del riproporre uno stereotipo razziale (con canti, musiche, danze, movenze) ad un trucco stilizzato che enfatizzava determinati tratti somatici e un abbigliamento tipico (labbra enormi spesso bianche, a volte parrucche di lana, guanti bianchi, abiti sgualciti o frac). E non si scherzava affatto, anzi, sì, si scherzava perché era divertente per i bianchi andare a teatro a vedere le caricature viventi degli afroamericani, una vera chicca comica!
Gli spettacoli coi Blackface vennero chiamati Ministrel show ed ironia della sorte (o forse no?) sono la prima vera e propria forma teatrale originale degli Stati Uniti. Niente male, eh?
E questa forma di intrattenimento clownesco che perpetrava stereotipi e offese razziali era così diffusa e popolare che dopo la Guerra Civile persino i neri iniziarono ad impersonare i Blackface in una parodia di se stessi o forse in una sotterranea rivincita. Un esempio è William Henry Lane, detto Master Juba o Boz’s Juba, tra i primissimi neri ad esibirsi per un pubblico di bianchi ed unico ad aver girato con una compagnia di Ministrel di soli bianchi. Boz’s Juba divenne famosissimo anche oltreoceano, in Inghilterra, per il suo stile formidabile di danza che si dice abbia dato origine al tip tap, alla step (o stepping) e alla danza jazz. Master Juba morì comunque di stenti.
Ma come si sa “non tutto il male viene per nuocere” e pare che nonostante il razzismo e gli stereotipi il Ministrel Show sia stato un mezzo per stimolare un interesse per la cultura e le tradizioni afroamericane. Infatti questi attori bianchi portavano in scena canzoni della tradizione afroamericana, canti spirituals, danze, e da qualche parte li dovevano andare a cercare, no? E dove se non direttamente dai neri?
Forse anche questo ha decretato la sua fortuna e popolarità, infatti la figura del Blackface non si è fermata solo ai Ministrel show, si è propagata anche al Vaudeville, agli show di Broadway, nei film muti e con sonoro, nei cartoni animati fino agli anni ’50 (e parliamo di Disney, Warner Brothers, Merrie Melodies, Looney Tunes, ecc. ), alla radio, alla tv, nelle pubblicità.
Poi il Blackface è diventato un tabù. Basta, fine, il negretto stereotipato non va più.
La società cambia e con lei morale ed abitudini. Oggi, in questi tempi fortunati certe cose non si vedono più e ci consola muoverci nel politically correct e non offendere nessuno eppure… qualcosa spesso non mi torna…
“E’ bello che alla fine la nostra epoca abbia maturato un po’ di sensibilità, non trovi Sara?”
Non rispondo… Ma se ha detto la parola negro due minuti fa!… Bah… Non voglio rovinare il momento… Hengel è sempre così bendisposto quando sorseggia il suo caffè con due bustine di zucchero: