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DiSbieqo Il racconto dei racconti (Tale of Tales), di Matteo Garrone (2015)

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Con coraggio, Garrone si confronta con il genere fantasy, andando a ripescare “Lo cunto de li cunti”, la raccolta cinquecentesca di fiabe in lingua napoletana di Giambattista Basile


garrone-il-racconto-dei-racconti-locandinaNon è facile, infatti, confrontarsi con i vari colossal americani, in cui il fantasy ormai ha poco di originale, si ripete uguale a se stesso attraverso un codice unificato che lascia poco spazio alla creatività dell’autore.
Con Garrone l’immagine si allontana dal genere, si rende autonoma e, senz’altro, questo rappresenta l’aspetto più riuscito del film. Sono tre le storie parallele, apparentemente scollegate una dall’altra. Una regina sterile, che farebbe di tutto per avere un figlio, convince il re ad una lotta con il drago marino per rubargli un cuore pulsante. Una vergine lo cucinerà e lei lo mangerà rimanendo all’istante incinte entrambe di due gemelli, un principe e un povero figlio di serva. Ecco la prima storia, quella di una madre ossessionata dal figlio, ancor prima di averlo, una madre che sembra incestuosa, ingombrante e autoritaria, cercherà di impedire in tutti i modi al figlio di frequentare il fratello povero.

In questo primo episodio sono molte le immagini belle, girate con maestria. Il re, indossando uno scafandro che è stato ricostruito seguendo le indicazioni di incisioni seicentesche, si immerge nelle acque marine e noi, con lui, attraverso le sue soggettive appannate e poco chiare, vediamo la sagoma del drago che dorme sul fondo del mare. Bella la scena ricca di pathos, belle le immagini distorte, bello il sonoro con il respiro ansimante del re – ci ricorda altri film di Garrone, dove l’ansimare dei protagonisti si fa quasi firma autoriale.

Come previsto dall’indovino una vita si può avere dando indietro una morte, la regina con il grande cuore in mano, lascia il re morto con indifferenza, è la cupidigia e il desiderio femminile che si fa protagonista, l’egoismo quasi malato di chi vuol diventare madre a tutti i costi. E la scena più spettacolare si apre ai nostri occhi: il cuore rosso vivo su un piatto, l’inquadratura perfetta e simmetrica son lo sfondo bianco latteo, la regina – una Salma Hayek un po’ tirata e impassibile – che si china e a grande boccate strappa carne rossa gocciolante di sangue, con citazioni dall’horror storico italiano di Bava.

Il secondo episodio narra l’avventura di un re fissato con il sesso – Vincent Cassel che interpreta un Don Giovanni ante litteram – che crede di aver trovato un’altra vergine da iniziare (ha solo sentito la melodia della sua voce) all’amore, mentre invece viene imbrogliato da due vecchine decrepite e vizze che con l’inganno riusciranno nel loro intento. Questo è l’episodio che maggiormente concentra l’attenzione di Garrone sul corpo, un corpo che si trasforma, si fa rugoso, si fa giovane, si squarta; un corpo che già in “Primo amore” o L’imbalsamatore” era al centro dell’attenzione del regista.

Belle le scene dentro il bosco, quando la vecchia, trasformata dalla strega in ragazzina giovane e bellissima, distesa sull’erbe, avvolta da un velluto rosso sangue, sembrerà uscita da un quadro, dipinta nel bianco delle sue giovani carne e nel rosso dei lunghi capelli di fiabesca memoria, appunto.

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Il terzo ed ultimo episodio, narra di un re – Toby Jones con l’interpretazione migliore dell’intero film – che si affeziona ad una pulce e la ammaestra e la ciba a bistecche tanto che la pulce diventa una bestia enorme che rammenta ET. Così, distratto da questa relazione ambigua con la pulce e addolorato dalla sua morte, finisce per cedere la sua unica figlia ad un grosso e brutto orco, che vince il torneo riconoscendo “a naso” a chi appartiene la grossa pelle (della pulce).

La principessa, vestita con abiti che sembrano usciti dai quadri di Velasquez, Rubens e da quelli di Bronzino per le acconciature e gioielli, riuscirà a fuggire alla brutalità animalesca dell’orco che l’aveva segregata in una caverna. Sconvolta, sanguinolenta, con abiti stracciati, mostrerà al padre, come un’eroina di Artemisia Gentileschi, la grossa testa tranciata all’orco.

I paesaggi che fanno da sfondo alla fotografia sono mozzafiato: dal castello di Donnafugata a quello di Castel del Monte, i paesaggi splendidi di Bagnoregio, le vie incavate nel tufo di Sorano. Le presenze italiane di Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher, che interpretano dei circensi che attraversano le tre storie, collegandole, sono forse le meno memorabili, e anche il ritmo del montaggio talvolta sembra un po’ troppo lento e stagnante.

Nel complesso però il film è riuscito: la messa in scena di storie di solitudini, di mancanze, di umane passioni, le “tre età” della donna, che, rispetto alle fiabe originali, è da Garrone osservata con equilibrio non giudicante.

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Pubblicato il: 25 maggio 2015

Argomenti: Cultura, DiSbieqo, Quaderni

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