– Salve a tutti, mi chiamo Regionale 6680.
– Ciao 6680.
– Sono qui per raccontarvi la mia storia. Ma prima voglio dire pubblicamente che con oggi sono già due mesi che ho smesso di arrivare in orario.
– Bene!
– Bravissimo!
– Sei il nostro orgoglio!
– Grazie ragazzi, grazie. Ma non è stato facile. Mi sono sentito solo per così tanto tempo.
– Racconta, racconta. La tua storia deve essere un memento per tutti i nuovi iscritti al nostro Gruppo di Recupero Treni in Oraro.
– D’accordo, allora comincio.
Quando non ero altro che una giovane locomotiva lucidata di fresco, avevo moltissimi fratellini. C’era 6762, da Pisa. 2384 per Firenze. E perfino qualche Intercity, imponente, fiero e sempre in moto. La mia mamma, un bel modello Merci Bestiame, mi voleva bene e per mettermi in guardia dai pericoli circostanti mi diceva sempre “Figliolo, la vita è come la tratta Prato-Dubai: una bufala”.
All’epoca non capii che questo fondamentale insegnamento era finalizzato a non farmi ingannare da quegli strani esseri chiamati Macchinisti che ci pilotavano. Come tutti i giovani treni dai fischi ancora fiochi e dalle porte senza graffiti, mi fidavo di loro. Non vedevo che delle creature con strani berretti e aggeggi che emettevano strilli acuti appesi al collo. Insomma, consideravo i Macchinisti, i Capotreni e perfino i Controllori la mia personale flora batterica. Piccoli e innocui. Del resto non mi davano alcun fastidio: sedevano in cima, facevano su e giù col cambio e giocherellavano con le leve.
E questo perché, come mi rivelò un giorno VivAlto di Viareggio, millenni e millenni prima il Gran Consiglio della Locomozione Indipendente aveva deciso di dotare noi treni di una finta strumentazione di guida. In questo modo i piccoli, ingenui (e pure un po’ tonti) umani, a cui tanto piaceva comandare, avrebbero avuto l’illusione che tutto fosse nelle loro (u)mani (Ahahah. Carina, vero? L’avete capita? No? Siete dei Macchinisti?).
Poverini. Non si rendevano conto che siamo noi, siamo sempre stati noi a decidere quanto andare veloci, dove fermarci, dove bloccare gli scambi e perfino dove deragliare, se provocati.
In ogni caso, all’epoca ero un’idealista. E mi piaceva gratificare gli Umani, mi piaceva sentirli ridere mentre giocavano a farmi fare CIUFCIUF, mi piaceva sapere che erano fieri di me e mi oliavano ogni mese. Poi, d’improvviso, qualcosa cambiò.
Avete presente gli attacchi di meteorismo improvvisi? Ecco, una cosa del genere. Sentivo dentro di me muoversi degli essere incivili e cattivi, che in continuazione si lamentavano e mi colpivano con ingiurie e spesso anche con sonore botte ai sedili, calci alle porte e bagni semiscassati. I Macchinisti erano sempre più tesi e ansiosi. Percepivo che anche loro erano disturbati, paranoici di non riuscire ad arrivare in tempo, timorosi perfino di aprire la porta che separava la locomotiva dagli altri vagoni. Ma cos’era quell’infezione improvvisa? Cosa turbava il mio organismo costringendomi, con una violenza psicologica inaudita, ad arrivare sempre in orario per paura di essere picchiato e oltraggiato?
Andai avanti così per settimane. Sempre in orario, sempre spinto da quella sorta di urgenza che non mi faceva dormire la notte. Un giorno, stanco, deturpato e vergognosamente in anticipo, incontrai un vecchio amico. Gli spiegai tutto, i miei sintomi, i miei dolori, la prostrazione mentale in cui ero finito. Anche lui, mi disse, c’era passato. Mi spiegò che avevo contratto un’infezione grave ma curabile, che oltretutto si stava espandendo a macchia d’olio in tutte le stazioni dell’universo: la Pendolaropatia. Malattia subdola e ignota ai più, che colpiva in primis i Macchinisti e da qui si spandeva a velocità inaudita su tutto il treno nel giro di 24 ore. Se non curata in tempo, costringeva la vittima ad assurdi anticipi e a dimezzare i tempi di percorrenza.
L’unico modo per rimanere indipendenti dal controllo degli umani, Macchinisti o Pendolari che fossero, era il ritardo. E lo si poteva ottenere in una sola maniera, ossia autodistruggendosi. Piano piano. Pezzo dopo pezzo. Così è cominciata la risalita. Un giorno una porta saltata. Un giorno una ruota fuori asse. Un giorno ancora un vagone allentato. Cominciai ad accumulare minuti, poi ore, poi intere giornate! Il percorso è stato lungo, ma dentro di me sentivo che qualcosa stava cambiando: piano piano l’infezione scemò, i Pendolari decisero di non infestare più il mio corpo e i Macchinisti tornarono finalmente dei pupazzetti che amavano fare CIUFCIUF tirando la cordicella. Quei minuscoli esserini sudaticci e sempre di corsa capirono che ero più forte di loro e preferirono infestare altri treni più giovani e inesperti.
Noi ancora non lo sapevamo, ma la malattia si radicò talmente tanto tra loro da creare una nuova razza di treni addomesticati e deboli, chiamati malignamente Frecce.
Ora che sapete la mia storia, a tutte voi locomotive che lottate o lotterete contro la Pendolaropatia, voglio dare un consiglio che udii citare da un giovane umano ammalato di quella che, tra loro, è una altrettanto grave patologia, il Fabiovolismo: non smettete mai di ritardare. Perché il ritardo non è altro che un anticipo che non ha mai smesso di sognare.
– Bene! Bravo! Bis!
– Sì vabbè, ma che vuol dire?
– Eccheneso? Birretta?
– Vai, tanto dovrei partire tra cinque minuti quindi un paio d’ore libere ce l’ho.
Alla prossima settimana, se arrivo.
Alessia R. Terrusi