L’intervista al prof. Fedele Ruggeri, presidente del corso di laurea in Scienze Sociali dell’Università di Pisa
A due giorni dall’entrata in vigore dell’ordinanza anti bivacco, emessa dal sindaco Marco Filippeschi per la zona della Stazione, sono in tanti a domandarsi se il provvedimento sarà efficace. Perché i problemi di sicurezza, reale o percepita che siano, sono problemi comuni a tutte le città, specie nelle aree di grande transito come le Stazioni. Ne abbiamo parlato con il prof. Fedele Natale Ruggeri, presidente del corso di laurea in Scienze Sociali dell’Università di Pisa.
Prof. Ruggeri, cosa pensa dell’ordinanza?
L’ordinanza ha una portata positiva, perché risponde a una richiesta di presenza dell’autorità ed è quindi un provvedimento in un certo senso dovuto. Vedo però dei limiti: uno strategico, l’altro relativo alla peculiarità tipica delle ordinanze, cioè il fatto che sono provvedimenti limitati nel tempo e ad alcune zone specifiche. Che succede dopo 3 mesi? È verosimile pensare che i problemi ritornino. Il fatto che sia poi limitata alle sole aree vicine alla stazione induce a pensare che il problema semplicemente si sposterà altrove. Mi è capitato di vedere gruppi di famiglie filippine ad esempio, pasteggiare insieme e socializzare nella vicina Piazza Vittorio Emanuele. Sarà considerato anche quello bivacco? Oppure no, perché Piazza Vittorio non rientra nelle aree dell’ordinanza?
Entrando nel merito del provvedimento, ritiene che sia applicabile ed efficace?
L’efficacia dell’ordinanza dev’essere verificata, altrimenti diventa come le grida manzoniane
Quali misure secondo lei dovrebbero affiancare l’ordinanza?
Penso all’istituzione del poliziotto di quartiere, una figura che non si limita a sequestrare o multare, anche se può e deve farlo nei casi di flagranza di reato, ma che sta nel quartiere, lo vive e si relaziona con le persone che lo abitano o vi transitano. Una figura più rassicurante che repressiva, alla quale possono rivolgersi con una certa serenità anche persone che, per un motivo o un altro, hanno bisogni emergenziali: chi ha smarrito il portafogli ad esempio, o una persona anziana in difficoltà.
E gli interventi sociali?
Ecco, qui entra in gioco un discorso diverso, che non si limita a tamponare un’emergenza ma che porta a pensare alla società che si vuole. Il punto è creare circuiti virtuosi per le fasce più deboli. Penso ai senza tetto: se gli viene offerto un piatto di minestra, ogni giorno, l’urgenza di ‘bere una birra’ diventerà meno pressante e allo stesso tempo percepiranno un intervento continuo, un’assistenza che soddisfa alcuni bisogni primari, come il cibo, allentando il circuito di rabbia e depressione cui invece sarebbero destinati. L’idea di un pronto soccorso sociale, una formula applicata di rado ma dalle grandi potenzialità, andrebbe in questa direzione, ovvero quella di creare interlocutori collaborativi, presenti, in grado di dare risposte se non risolutive almeno iniziali ai problemi sociali. Un altro metodo è quello del segretariato sociale, una modalità organizzativa dei servizi sociali, una sorta di sportello dove oltre alle informazioni si offre un primo orientamento ai problemi. Certo, sono strumenti che presuppongono risorse e la volontà dei soggetti ad accedervi, ma possono essere abbinati a forme di intervento su strada, per intercettare le persone che vivono situazioni borderline e aiutarle.
C’è una parte di cittadinanza che sostiene che questi interventi “costano e non servono a niente”, ed è purtroppo una posizione diffusa e spesso condivisa dalla politica. Come si risponde a questo argomento?
In realtà sono servizi che hanno un’efficacia dimostrabile: è meglio intervenire investendo risorse nei servizi sociali o negli apparati giudiziari? Perché altrimenti si affermano cose del tipo “arrestiamoli tutti”, ed è una posizione evidentemente insostenibile. Occorrono interventi multilivello e multifunzione, e occorre una strategia che parta davvero dai bisogni primari: bagni pubblici, accesso all’acqua, accesso alle informazioni per chi è in difficoltà. Tra le proposte dell’amministrazione c’è anche quella di promuovere iniziative commerciali e culturali. Questa direzione è corretta perché punta all’aggregazione sociale su forme di identificazione culturale. Cos’è infatti che aggrega le persone? Quelle attività che permettono di riconoscersi in valori comuni, le espressioni artistiche, la condivisione del cibo. Se c’è aggregazione aumenta anche la solidarietà e i fenomeni borderline tendono a diminuire.
E il problema dello spaccio come si colloca in questo senso?
Questo è un fenomeno che ha caratteristiche proprie e diverse, e i rapporti che crea lo spaccio sono rapporti “virtuali”, con forme di intesa tra spacciatori e consumatori che cambiano continuamente. Innanzitutto la zona della Stazione è una zona di passaggio, che favorisce chi si nasconde nel marasma dei comportamenti. Lo spaccio inoltre ha bisogno delle situazioni di degrado, dove appunto è più facile passare inosservati. Se si “bonifica” il territorio dal degrado si tolgono alcune condizioni fisiche necessarie al proliferarsi dello spaccio, si elimina la stessa convenienza a questa attività. Lo spaccio inoltre, prima di essere un problema sociale è un reato, e qui le forze dell’ordine hanno il dovere di intervenire sull’intera filiera; come a dire, se si prosciuga il mare e restano solo le pozzanghere, ci penserà il sole ad asciugarle.