Saverio Costanzo (2014)
Non sempre i bei film sono anche piacevoli. È il caso di Hungry Hearts, bellissimo film dagli effetti ansiogeni e claustrofobici. Saverio Costanzo ci ha già abituato al dramma umano osservato nel profondo. Anche qui si indaga la psiche, la relazione, gli affetti e le emozioni. Stavolta però, tra il dramma e il thriller, ci sembra sia stato fatto un salto qualitativo nella grammatica filmica, un regista che andando a ripescare forme desuete e un po’ demodé – la dissolvenza al nero, i raccordi di sguardo per analogia, un misto di trabocchetto della visione, inquadrature ardite con angolazioni improbabili e fili a piombo che sembrano gareggiare con qualche buon film sperimentale – dice qualcosa di straordinariamente nuovo nel panorama italiano. L’immagine lavora per sottrazione, si carica di un senso emotivo, sporcandosi attraverso filtri visibili e marcati, diventa metafora essa stessa del sentire dei personaggi e, dall’inizio alla fine, col procedere della storia e con il suo implodere nel dramma silenzioso e stagnante, si fa via via più scura, più “polverosa”, esageratamente fumosa nelle scene in cucina, e molto splendente e dorata in chiusura, nel controluce del tramonto sul mare che accarezza con leggerezza la storia dolorosa e soffocante appena conclusa. In effetti è lodevole sia la fotografia di Fabio Cianchetti, sia il montaggio a firma Francesca Calvelli che gestisce il tempo della narrazione, ricorrendo a continue ellissi temporali truccate da normali raccordi di sguardo.
Gli attori sono strepitosi – coppa Volpi 2014 per la miglior interprete femminile ad Alba Rohrwacher e maschile ad Adam Driver – conducono un appassionante lavoro teatrale sulla mimica della disperazione. Mina e Jude si conoscono perché sono rimasti intrappolati nella toilette angusta di un ristorante cinese, in un teatrino del grottesco visto che lui ha delle coliche a cui lei non può sottrarsi nello spazio claustrofobico della piccolissima toilette. Già in questa prima scena è chiaro che tra i due ci sarà una relazione amorosa ma anche un gioco sottile di potere. In effetti scoppia una amore molto passionale che il sorriso smagliante dei due e le immagini luminose e belle vanno a valorizzare.
La macchina da presa inizia però a “braccare” i protagonisti, chiudendosi in dettagli o primissimi piani che vanno a disturbare il bisogno spettatoriale del vedere lo spazio più ampio della scena. Nasce un bambino e Mina rimane vittima di un’ansia ossessiva per la protezione del figlio: spigoli coperti senza logica, reti metalliche per tappare buchi comunque inaccessibili a un neonato, patologico controllo del cibo sano, puro e rigorosamente vegano (ha una serra sul tetto di una bella casetta di New York!) fino a ridurre il bimbo alla consunzione. Ecco che la relazione d’amore e serenità si trasforma in una dialettica di tensioni e di deliri materni che andranno ad esaurirsi nel dramma estremo. L’anoressica presenza di Mina – che ricorda da vicino quella della stessa Alba Rohrwacher de La solitudine dei numeri primi – si fa quasi mostruosa per la deformazione dell’immagine che la strazia, la trasforma, la svuota di umanità. Eppure noi spettatori non siamo sempre contro di lei, Costanzo ci fa oscillare nel passaggio continuo tra compassione e giudizio severo. Tratto dal romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco, il film va visto perché in Italia sono pochi i film così.