Marzo 1965: a Selma, nello stato dell’Alabama, si lotta per affermare il diritto di voto per gli afro-americani. Il leader del movimento è Martin Luther King
Ava DurVernay, già premiata al Sundance Film Festival del 2012 con Middle of Nowhere, ritorna con un film che va ugualmente ad affondare le radici nella ricerca della verità, della giustizia e dei diritti.
Marzo 1965: a Selma, nello stato dell’Alabama, si lotta per affermare il diritto di voto per gli afro-americani con alcune marce che dovrebbero arrivare fino a Montgomery. Il leader del movimento è Martin Luther King – interpretato da un eccellente David Oyelowo – e il film ruota attorno alle marce e a King nello stesso modo, si concentra sull’episodio storico fondamentale per l’acquisizione della legge del diritto al voto del 1965 e, attraverso questo, va a inquadrare gli aspetti più umani e intimi della figura del leader.
La prima marcia si svolse il 7 marzo e fu ricordata come “Bloody Sunday”, in effetti si spense nel sangue delle manganellate e nel gas lacrimogeno. Il film rende magnificamente le scene della repressione, esaltandone la drammaticità con un ralenti poetico e delicato. L’Edmund Pettus Bridge, il ponte sul fiume Alabama, si fa protagonista dei campi lunghi e lunghissimi, dà spazio alla folla di neri in marcia, in alcuni splendidi gruppi animati che si bilanciano sulla simmetria e sull’equilibrio del campo e fuori campo.
King, responsabile di scelte importanti, come quella di sospendere la seconda marcia, prima inginocchiandosi e poi tornando indietro seguito dai manifestanti, discute animatamente – da pastore, appunto – alle folle, spiega i suoi intenti, la non violenza come sola forma di resistenza e di lotta, anche andando contro ad alcuni leader del movimento. Sono le scelte e il coraggio che si dimostrano all’altezza: nel film c’è anche un uomo, al di là dell’aura del mito, epico nella sua idealizzazione, un uomo con i suoi lati oscuri e deboli (i presunti tradimenti svelati alla moglie dall’intelligence americana per mettere in crisi la loro relazione) con le sue paure e i suoi dubbi.
In alcuni momenti, soprattutto nei lunghi monologhi di King – nonostante l’interpretazione superlativa di Oyelowo – il ritmo un po’ cade, e si respira il senso di una lentezza narrativa eccessiva, ma un’ottima sceneggiatura di Paul Webb e alcune scelte interessanti e originali ce la fanno perdonare. La regista utilizza didascalie in sovraimpressione per fornirci informazioni sulle varie conversazioni spiate di King, con la moglie e non, nelle intercettazioni governative. Anche i vari personaggi, protagonisti storici delle marce, vengono sottolineati dalle didascalie che ci illustrano quello che saranno in futuro, magari anche con cariche governative.
Belle le immagini di repertorio con le inquadrature in bianco/nero della vera marcia, o di marce simili, un documentario dentro il film, con la genuina e istintiva forza della ripresa reale.