di Lorenzo Carletti e Cristiano Giometti
Un anno fa veniva ricollocata sulla parete meridionale del Camposanto di Pisa la grande Tebaide (o Storie dei Santi Padri) dipinta da Buonamico Buffalmacco tra il 1336 e il 1341. Il celebre ciclo del Trionfo della morte, staccato a seguito dell’incendio del 27 luglio 1944 durante i combattimenti per la liberazione della città, ritorna così nella sua sede originaria. Ma cos’è raffigurato sulla scena che è tornata a parete?
Com’è noto, il monachesimo cristiano vide i suoi primi sviluppi nell’Egitto del III-IV secolo: asceti che conducevano vita isolata cominciarono a stabilirsi in località vicine per potersi assistere a vicenda, arrivando a formare comunità, ognuna con una propria chiesa. Nella zona desertica di Tebe fiorì la vita anacoretica sull’esempio di Paolo di Tebe e poi di Antonio abate; più tardi Pacomio fondò sulla riva occidentale del Nilo un centro di eremiti che facevano vita comune, con molte celle divise all’esterno da un muro di cinta (coenobium). Nel complesso nacquero undici monasteri – due dei quali per donne, fondati da Maria, sorella di Pacomio – basati sulla rinuncia alla libertà individuale: ciascuno abitava e dormiva nella sua cella, ma pregava e mangiava con gli altri e durante il giorno faceva ogni sorta di lavoro nel chiostro o in campagna. Solo per bisogno si poteva comunicare con gli estranei, verso i quali si esercitava però la più larga ospitalità. Cenobi furono fondati in Palestina da Ilarione di Gaza e da Epifanio di Salamina e presto si diffusero in Libia.
Tale premessa è indispensabile per analizzare l’intero ciclo pisano del Trionfo della morte, ideato e promosso da eminenti personalità del convento di Santa Caterina di Pisa, in linea con la traduzione in volgare delle Vitae Patrum intrapresa in quello stesso convento da Domenico Cavalca (1270 ca.-1342). Chi entrava in Camposanto e seguiva il percorso di rito nella liturgia dei morti, trovava in sequenza la Tebaide, il Giudizio Universale con l’Inferno e il Trionfo; ad angolo incontrava la Crocifissione, prima storia a essere dipinta nel Camposanto da Francesco Traini (1330 ca.), seguita dalle Storie cristologiche post-mortem ancora di Buffalmacco. Dunque il significato della Tebaide non era disgiunto dagli altri temi affrescati, proponendo un modello di vita in antitesi al peccato e alla morte terrena. Era possibile, inoltre, il percorso inverso: lasciato il paesaggio dell’eterno cielo abitato da Cristo risorto, il fedele confrontava l’agonia di Gesù in Croce con la propria morte e trovava nella visione delle Vite dei Santi Padri un modello di vita cristiana. I fini pedagogici erano evidenziati dalla presenza di diffuse iscrizioni – oggi in buona parte perdute – quasi fosse un fumetto. Il filologo Salomone Morpurgo (1860-1942) alla fine dell’Ottocento le trascrisse, recuperandole in parte da un codice della seconda metà del Quattrocento e così oggi conosciamo più o meno tutto il testo che chiosava il ciclo di Buffalmacco.
Il primo impatto era suscitato dall’episodio dell’Incontro dei vivi con i morti nel Trionfo della morte: eleganti signori, durante una battuta di caccia trovano tre bare aperte con cadaveri in diverso stato di decomposizione, mentre in alto alcuni eremiti si contrappongono alla cavalcata. Ciò costituisce un’interessante prolessi, vale a dire il richiamo di un episodio che viene presentato più avanti e cioè nella Tebaide. Anche questa si compone di registri sovrapposti, in cui ascesi e contemplazione sono in alto, mentre in basso sta la vanità delle cose terrene. Nel registro superiore si illustra la perfezione raggiunta e la vittoria sul demonio (vi compare addirittura Cristo): troviamo Paolo di Tebe e Antonio abate, il loro incontro, la morte di Paolo, le tentazioni di Antonio, la visione di Cristo e poi Ilarione di Gaza che caccia il drago.
Nel registro mediano vengono illustrate le tentazioni e troviamo Maria Egiziaca, Onofrio e Pafnuzio, Macario Romano e altri. Nel registro inferiore si annidano i maggiori pericoli: Macario e il diavolo, il monaco istigato alla lussuria da Alessandra, mentre un gruppo di monaci è intento alle attività quotidiane. Al centro della parte bassa, un medico a cavallo con la caratteristica pelliccia di vaio e le ampolle alla cintura, invita Macario (ritratto col libro aperto delle meditazioni) ad andare in città, simbolo di perdizione (fig. 5); zampe e artigli spuntano sotto la veste del medico (oggi sono visibili solo nella sinopia). Un’iscrizione, leggibile ancora alla fine dell’Ottocento, leggeva:
L’abate venerabile Macario,
di sancta vita e di gran divotione,
cognobbe, in essendo in contemplazione,
il diavol facto medico col vario
Città e deserto. Il deserto è l’immagine emblematica di una scelta di vita, una condizione d’isolamento interiore che rende possibile la contemplazione. Per questo frà Giordano da Pisa (1260-1310) lo proponeva persino ai laici: “E però vi dico: meglio vedi stare in camera tua, e pensare di Dio, e contemplare di Lui, che andare discorrendo qua e là, o a spedali, o dovunque altro ti piace”. Luogo di meditazione ma anche di lotta contro i piaceri di carne e gola, disprezzo della ricchezza e delle sue espressioni esteriori, fiducia nella provvidenza divina. Scrive Cavalca:
Piacemi in fine di questa leggenda domandare gli uomini ricchi e potenti del mondo li quali non sanno bene usare le loro ricchezze, li quali hanno li grandi palagi di marmi ed indorati, e comperano li molti poderi e le grandi possessioni: che mancò mai a questo povero vecchio cioè Paolo? Voi, uomini ricchi, beete con coppe gemmate; e Paolo mettendosi l’acqua in bocca con mano soddisfaceva alla sete; voi portate li vestimenti ornati, e innorati; e Paolo non ebbe mai così buona gonnella com’ha uno de’ minimi fanti. Ma per contrario considerate che a questo povero era aperto il cielo e a voi lo ‘nferno. Egli amando nuditate servòe la veste di Cristo; voi vestiti a seta avete perduto il vestimento di Cristo. Paulo sepulto vilmente in terra, risusciterà con gloria; voi coi sepolcri de’ marmi ed esquisiti ed aurati risusciterete a pena. Come non cessa l’ambizione e la vanità almeno a tempo di corrotto e di pianto? Or non possono infracidire i corpi de’ ricchi, se non s’involgono in seta?
Buffalmacco mostra di conoscere il teatro medievale, che nelle piazze metteva in scena storie a sé stanti della Passione, e tale sintassi prevale sul paesaggio, senza seguire indicazioni spaziali o gerarchia. Guardando la scena nel suo complesso si ha quasi l’impressione che sia un’antologia della vita perfetta con episodi scelti a caso; in realtà, anche se possono essere letti uno alla volta perché hanno valore esemplare, sono incatenati in uno schema che suggerisce il percorso dell’ascesi. A guidare questa macchina teatrale è quel che accade in basso al centro, sopra il ponte: il dialogo di Macario con il teschio di un pagano (fig. 6). La morale è chiara: mentre il corpo umano è caduco, l’anima è eterna. È il concetto dell’Incontro dei vivi con i morti da cui siamo partiti e così si chiude il cerchio, ma nel far ciò va ricordato che proprio alla destra del ponte si trovava la sepoltura di Giovanni Cini, un beato che aveva scelto la vita eremitica e il cui corpo fu inumato nel paramento murario a fianco della porta d’ingresso del Camposanto.
L. Bellosi, Buffalmacco e il Trionfo della morte, Torino 1974; C. Frugoni, Altri luoghi cercando il Paradiso (Il ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa e la committenza domenicana), in “Annali della Scuola Normale Superiore”, 1988, XVIII, 4, pp. 1557-1645; A. Caleca, Costruzione e decorazione dalle origini al secolo XV, in C. Baracchini – E. Castelnuovo (a cura di), Il Camposanto di Pisa, Torino 1996, pp. 13-48; L. Bolzoni, La predica dipinta. Gli affreschi del “Trionfo della Morte” e la predicazione domenicana, in C. Baracchini – E. Castelnuovo, Il Camposanto, pp. 97-114.