Giovanni A. Cignoni
Luglio-Agosto 2014
La ricerca scientifica e ancor più lo sviluppo di tecnologie somigliano a quegli sport in cui per iniziare, partecipare e rimanere in gioco bisogna poterselo permettere. Chi compete deve poter contare su patron e sponsor capaci di sostenerlo in ogni momento, anche negli imprevisti.
Come per esempio quando, all’improvviso, le regole impongono di cambiare campo di gara.
4. Maledetti transistoni
Quando si iniziò a trattare le informazioni con l’elettricità, chi giocava a costruire strumenti per il calcolo aveva il relè come mattoncino. Il relè esisteva dalla metà dell’800, usato in principio per ripetere i segnali telegrafici. È un interruttore controllato elettricamente, fatto da una molla e un elettromagnete. Con un relè la corrente che c’è (il mitico uno) chiude un circuito, fa passare altra corrente e produce un altro uno. Oppure, dipende da come sono messi molla ed elettromagnete, interrompe il circuito ottenendo una corrente che non c’è (l’altrettanto mitico zero). Due tipi di relè sono sufficienti a fare tutte le operazioni logiche fondamentali – che poi sono tre e ne bastano due.
Collegando (ammodino) tanti relè furono realizzate macchine straordinarie, dalle tabulatrici che fecero la fortuna di IBM agli Harvard (nella foto in alto), dove un insetto in un relè causò il primo bug documentato della storia dell’informatica. Così andò fino agli anni ’40 e le macchine citate benché strumenti di calcolo non erano veri calcolatori. Non erano neanche elettronici: i relè sono elettromeccanici.
Poi arrivarono le valvole. Sfruttano un effetto termoionico, reagiscono in tempi rapidissimi e non hanno parti in movimento. Sono simili a un rubinetto, una corrente comanda il flusso di un’altra corrente: la valvola è chiusa, appena aperta, un po’, tanto, tutta, in proporzione (anche inversa) alla corrente di controllo. La variazione continua, analogica si dice, rende le valvole ideali per gli amplificatori (il nome commerciale delle prime era Audion), uso per cui sono tuttora apprezzate. Le valvole si possono usare anche in digitale, tutte aperte o tutte chiuse come i relé, per trattare zeri e uni. Pare uno spreco, ma la velocità paga.
Fra i primi a usarle così c’è Bruno Rossi negli anni ’30: le adotta nei circuiti di coincidenza per studiare i raggi cosmici. Piccolo il mondo: Rossi si ritroverà poi in USA con Fermi, indovinate perché – aiutino, c’entrano le leggi, ma non della fisica.
Torniamo alle valvole. Fra il 1939 e il 1942 allo Iowa State College, Atanasoff e Berry le usarono per implementare in binario le operazioni aritmetiche nel loro ABC: non era ancora un calcolatore, ma certo fu un altro bel passo avanti. E da allora le valvole diventarono il campo di gara.
I transistor furono inventati nel 1947 ai Bell Labs da Bardeen, Brattain e Shockley, che ebbero il Nobel qualche anno più tardi. Dal risultato scientifico al prodotto tecnologico non passò molto: a fine ’55 sulle Chrysler c’era un’autoradio Philco all-transistor (un optional da 150$). Ai calcolatori però servivano decine di migliaia di transistor uguali, affidabili e consegnati puntualmente.
Sull’Arno invece, l’arrivo dei transistor fu un guaio. Lo sapevano: fra i dubbi che a marzo 1955 Ingegneria ancora esprimeva sull’idea di fare un calcolatore, c’era l’incognita dei transistor e del salto tecnologico che avrebbero implicato. Ma il cambio fu repentino. E poi c’era il problema soldi.
I fondi iniziali stavano esaurendosi e, nonostante il successo messo a segno con la MR, il progetto era in affanno. La MR fu smantellata per riusare i materiali nella seconda CEP: buttare le valvole e acquistare tutti i transistor necessari era troppo lusso. Si sperava che lo Stato intervenisse con un finanziamento, anche con ragioni che giustificavano un certo ottimismo. Ma non fu così.
A dimostrazione di competenza e capacità, nella seconda CEP furono transistorizzati il controllo e l’alimentazione, ma rimase un calcolatore a valvole: per il 1961 una tecnologia superata.
Il punto della bandiera lo segnò comunque Olivetti, dal ’60 vendeva calcolatori a transistor.
LE PUNTATE PRECEDENTI: Calcolatrice? / La prima CEP, quella dimenticata / Com’era bello il sincrotone
Ultime note
Abbiamo toccato solo una parte delle storie delle CEP, molte ancora ne rimangono, a partire da quelle taggate Olivetti. Ci torneremo.
Per chi ha resistito fino alla fine e volesse saperne di più e più in dettaglio, un resoconto accademico dei fatti è in “I documenti raccontano le storie delle CEP” scritto con Fabio Gadducci e Daniele Ronco e pubblicato in “La CEP prima della CEP”, Quaderni della Fondazione Galileo Galilei, n. 1, 2013. Contiene tutti i riferimenti alla letteratura, inclusi gli errori degli storici precedenti che qui sono stati mantenuti anonimi. Lo trovate al bookshop del Museo degli Strumenti per il Calcolo (a cui vanno tutti i ricavi).